L’IMMIGRAZIONE STRANIERA IN ITALIA NEL PERIODO REPUBBLICANO

1.   Introduzione

1.1.                  Una nazione di “stranieri”?

1.2.                  Un caso limite: i rimpatriati italiani

1.3.                  Un’esperienza: il campo

2.   I primi decenni: profughi, limitazioni legali e studenti stranieri

2.1.                  I profughi da oltrecortina

2.2.                  Profughi dal Cile

2.3.                  Profughi dal Vietnam

2.4.                  Studenti provenienti dall’estero

3.   Dagli anni Settanta agli anni Ottanta: stranieri al lavoro

3.1.                  Lavoro, città e condizioni di vita

3.2.                  la legge Foschi e il racconto dell’ordine pubblico

4.   Finisce il Secolo breve: legge Martelli, razzismo e nuovi arrivi

4.1.                 La legge Martelli e il problema del razzismo

4.2.                  La crisi albanese

5.   Conclusioni

Introduzione

1. Una nazione di “stranieri”?

Contrariamente a quanto suggerito dall’esperienza quotidiana, la mobilità di persone e gruppi non è un fenomeno esclusivo degli ultimi decenni: le migrazioni sono sempre esistite, e caratterizzano tanto l’antichità quanto l’età medievale e moderna. Le scienze umane hanno perciò ormai decostruito la concezione di “popolo” come entità omogenea e statica legata ad un dato territorio e a una cultura. Queste riflessioni si sono legate a doppio filo alla riconsiderazione di alcuni altri concetti fondanti della storiografia. Le tradizioni sono ora indagate in quanto “invenzioni”, non come semplici archivi di simboli e pratiche a cui attingere dal passato, mentre i confini sono considerati soglie porose, frutto non di un dato naturale, ma di costruzioni che sono contemporaneamente culturali, politiche, amministrative, cartografiche e fisiche.

Questo ripensamento teorico ha perciò riguardato anche l’idea di nazione e i processi cosiddetti di nation-building, inquadrati come stratificazioni di immaginazioni sulle persone e sulle comunità e quindi riguardanti anche la descrizione e la caratterizzazione dell’altro, del migrante, dello straniero. “Tutte le società”, ha scritto in un celebre articolo Zygmunt Bauman, “producono stranieri” e ciò avviene e avveniva sia tramite gli strumenti predisposti dall’apparato burocratico (leggi, documenti identificativi, dispositivi polizieschi) sia attraverso l’azione di periodici e quotidiani.[1] Insieme ai romanzi infatti, i giornali, ha argomentato Benedict Anderson, offrirono gli strumenti tecnici per «rappresentare» quel tipo di comunità immaginata che è la nazione” e quindi giocarono e giocano tutt’ora un ruolo centrale nella costruzione di “rappresentazioni sociali dell’alterità”, come ricordato da Binotto, Bruno e Lai, poiché essi si trovano spesso a svolgere una “funzione ideologica di controllo sociale”.[2]

In questo senso, come ricorda il Routledge Handbook of Mobilities, la produzione di immaginari sulle persone migranti agisce come fonte di norme, regole e convenzioni riguardanti anche chi migrante non è.[3] Per tale ragione, ma non solo, non è semplice chiarire in maniera univoca i contorni dei fenomeni migratori e di chi li anima. Esistono infatti numerose categorie di persone migranti: rifugiati, richiedenti asilo, espatriati per le più varie cause, migranti economici (di qualunque livello professionale), migranti giunti in un paese per ragioni di studio, oppure affettive o familiari, migranti vittime di traffico e sprovvisti di documento e molti altri ancora, tutti con mete e percorsi diversi e non sempre residenti indefinitamente in un unico paese, che può essere anzi solo luogo di transito più o meno rapido.[4]

Per queste varie ragioni ci occuperemo qui del contesto italiano a partire dal secondo dopoguerra pensando alla categoria di “immigrazione” in senso ampio, accennando anche a casi limite che caratterizzano i primi decenni repubblicani, come quello dei “national refugees” studiati di recente da Pamela Ballinger.

2. Un caso limite: i rimpatriati italiani

La storica ha dedicato la sua produzione recente alle internally displaced persons, persone di origine italiana che a seguito del processo di smantellamento del colonialismo italiano, tra il 1947 e il 1960, ritornarono in Italia dai territori prima controllati in Africa, Albania e Grecia, dove si erano recati come coloni o come migranti. Il caso dei cosiddetti “rimpatriati”, solo apparentemente eccezionale, permette di riflettere su diversi temi; dai confini culturali e giuridici dell’identità nazionale, all’influenza della sistemazione giuridica del tema dei rifugiati, fino alla questione, per noi centrale, della presenza giornalistica dei migranti. Anche se fino a pochi anni fa dimenticati, i rimpatriati italiani furono infatti ben presenti nelle cronache giornalistiche.

Ma citare il caso ci consente di soffermarci su alcuni altri nodi centrali. Prima di tutto la necessità di considerare migranti, rifugiati, profughi, richiedenti asilo e rimpatriati come attori storici con precise motivazioni, ma anche come figure individuate e descritte attraverso specifiche politiche di protezione e regolamentazione. Ha scritto la storica Silvia Salvatici che programmi di assistenza, politiche, accordi tra associazioni, stati e organi internazionali “determinarono l’emergere di profughi e profughe come soggetti specifici dell’umanitarismo internazionale”.[5] L’“international regime of protection, relief, and regulation” di cui parla Ballinger nacque infatti già con la Prima guerra mondiale e le sue tragedie, ma si consolidò dopo il secondo conflitto, inaugurando una dottrina del riconoscimento legale orientata su base individuale, interessata soprattutto alle traiettorie di spostamento dei singoli.[6] Questi principi troveranno compiuta organizzazione prima nell’IRO (International Refugee Organization, 1946-1951) e poi nel UNHCR e nella Convenzione di Ginevra del 1951 che “codifica il concetto di rifugiato internazionale” e informava le politiche di asilo di ogni stato aderente all’Onu.[7] Venivano così introdotte restrizioni temporali e geografiche precise per concedere il riconoscimento legale della protezione, ponendo l’accento sulle mobilità legate a fattori persecutorii e politici e ad eventi avvenuti prima del 1 gennaio 1951. Tali condizioni limitanti, come vedremo, insieme all’inserimento di una “clausola di riserva geografica” che offriva agli stati la possibilità di limitare le richieste a chi proveniva dal continente europeo, avranno grande importanza per il caso italiano.

3. Un’esperienza: il campo

Tra le continuità che caratterizzano l’esperienza di rimpatriati, profughi e migranti è di particolare rilevanza, per la sua costante presenza nei discorsi della stampa, quella relativa all’esperienza della permanenza in “campi” o centri per l’accoglienza e il controllo dei rifugiati. Una volta conclusasi la guerra, infatti, furono creati numerosi di questi “strumenti coattivi”, specialmente in Germania, Austria e Italia, non per fini bellici o genocidi, ma come luoghi dove alloggiare, assistere, avviare al lavoro e controllare i numerosissimi profughi europei.[8] Si trattava di luoghi, dunque, in cui le finalità di assistenza si sommavano a quelle di governo delle Displaced Persons, categoria amministrativa ideata per indicare “i civili che si trovavano fuori dai confini della propria patria per motivi legati alla guerra” e che comprendeva principalmente “ex deportati ai lavori forzati, provenienti in più larga misura dallEuropa centro-orientale e balcanica […], ex deportati per motivi politici o razziali […]” e “[…] civili che erano fuggiti verso ovest con l’avanzare dell’Armata rossa”.[9]

Gestiti e controllati, nell’immediato dopoguerra, sia dalle forze militari alleate che da UNRAA e IRO, questi centri di accoglienza furono organizzati secondo linee di demarcazione che cercavano di rispecchiare le provenienze nazionali, per facilitare l’obiettivo primario dei responsabili, ovvero il rimpatrio di individui e famiglie o, in alternativa, l’inserimento lavorativo in paesi d’accoglienza. Spazi di tutela ma spesso anche di segregazione, i centri di accoglienza del dopoguerra furono animati tanto dalla attività degli alleati quanto dall’autorganizzazione dei residenti, non soltanto “luoghi di contenimento” ma anche “ambienti sociali compositi”, il cui funzionamento però finì per consolidare “l’abitudine ad associare la condizione di fuga con la residenza obbligata nei centri collettivi, forgiando così uno dei caratteri costitutivi della percezione dei rifugiati nelle società contemporanee”.[10]

Se questa descrizione vale specialmente per la Germania, in Italia la situazione ebbe alcune caratteristiche specifiche. Si crearono, ha scritto Matteo Sanfilippo, due binari paralleli nell’organizzazione dei campi: “uno, gestito da Alleati-Esercito britannico-Unrra-Iro per i rifugiati legali; l’altro, italiano, per quelli illegali e/o pericolosi” e in merito a chi abitò i campi, oltre alla presenza di prigionieri di guerra nazifascisti, di ex-combattenti nell’Europa orientale, di ebrei, va registrata certamente l’importanza della popolazione legata alla diaspora giuliano-dalmata.[11] Di questi centri per “stranieri pericolosi” alcuni,  rinominati “Centri di raccolta profughi stranieri”, continuarono a venir utilizzati per profughi senza documenti o colpevoli di reati o espulsi da altri campi a gestione internazionale.[12] La permanenza di alcune di queste strutture nel successivo governo dei fenomeni di arrivo di persone dall’estero ci spinge dunque a riflettere ulteriormente sui confini labili tra l’esperienza dei profughi e quella delle “migrazioni ordinarie”, che in questo profilo sono infatti trattate come parte delle della medesima storia, raccogliendo gli stimoli fissati su «Meridiana» ormai diversi anni fa da Stefano Gallo.[13]

I primi decenni: profughi, limitazioni legali e studenti stranieri

            1. Profughi da oltrecortina

L’Italia, con lo strutturarsi della Guerra fredda, divenne prima di tutto un paese di primo passaggio, di transito, per le persone in fuga dai paesi del blocco socialista. Per costoro, in attesa del giudizio sullo status che ne avrebbe consentito la partenza verso altri paesi, si aprirono spesso le porte di nuovi campi, come a Latina, dove nel 1957, per accogliere e permettere il trattamento burocratico degli esuli provenienti dall’Ungheria comunista, si apri il Caps "Roberto Rossi Longhi”.[14] In particolare tali arrivi furono favoriti dalla rimozione, nel 1967 con il Protocollo di New York, della riserva temporale applicata dal nostro paese al dettato della Convezione di Ginevra. Nonostante i numeri non elevatissimi (circa 37.000 le persone transitate per il Caps di Pedricciano, a Trieste, tra 1952 e 1962) Silvia Salvatici ha di recente proposto di riconsiderare la convenzione dell’Italia in quanto semplice paese di transito, sottolineando invece la rilevanza dell’esperienza nello strutturare approcci e percezioni locali e nazionali, seguendo non solo le faglie della Guerra fredda.[15]

La possibilità che i richiedenti asilo si stabilissero in Italia definitivamente fu tuttavia rappresentata dalla stampa quasi sempre come remota o sorprendente. Scriveva il torinese «La Stampa» nel 1965 che i circa 50.000 arrivati dal 1952: “Volevano assistenza per emigrare in Svezia, nel Canada, in Australia, o addirittura trovare lavoro fra noi”, poiché dopo la ratifica della Convenzione di Ginevra “l’Italia diventò una specie di trampolino di lancio per chi intendeva farsi una nuova patria”.[16] L’articolo proseguiva poi spiegando il sistema di valutazione legale, la dura permanenza nei centri e l’elevato profilo professionale dei protagonisti. Si tratta di tratti della narrazione giornalistica che, come vedremo, si riveleranno duraturi.

Nel 1975, ad esempio, sempre «La Stampa» titolava di un «Arcipelago» dei profughi, echeggiando il libro appena tradotto di Aleksandr Solženicyn e inaugurando una formula fortunata. Evocando “l’arcipelago” si attribuivano al fenomeno dell’asilo contorni numericamente poco chiari, sottolinenando l’isolamento delle persone coinvolte e la privazione di libertà, ma implicitamente si ribadiva anche il legame tra migrazioni e fuga dal comunismo.[17] D’altronde Lamberto Furno, nell’articolo, non mancava di criticare, citando un esperto dell’UNHCR, la scelta da parte italiana di limitare l’asilo alle persone provenienti dall’Europa, utilizzando la già citata clausola di riserva geografica. Nonostante il teorico divieto, tuttavia, tali persone extra-europee confluivano ugualmente “nei campi di raccolta” dei quali si descrivevano le durezze, anche attraverso testimonianze dei diretti interessati, come quella di Jiří Pelikán “uno dei protagonisti della primavera di Praga”.[18] L’utilizzo della voce di un dissidente di rilievo nella politica europea rimarcava la contraddizione tra fuga per la libertà e vita nei campi.

Spiccano inoltre altre caratteristiche ricorrenti. Il pezzo, ad esempio, insisteva sul mistero relativo alle vie d’arrivo dei migranti: se nei decenni successivi l’interesse si rivolse in particolare ai trafficanti, l’interesse per la narrazione dell’attività criminogena emergeva già nel 1972, nella copertura giornalistica dell’inchiesta sulla “Tratta dei negri” che portò alle dimissioni del direttore del campo di Farfa e ancora prima, a livello locale, per l’attraversamento della frontiera triestina da parte di lavoratori jugoslavi.[19] Emerge poi, qui e altrove, una preferenza per il racconto di storie personali commoventi, oppure con protagonisti istruiti. “I rifugiati di Pedriciano […]”, scriveva «La Stampa» nel 1974, “In genere provengono dalla Mitteleuropa socialista (Ungheria e Cecoslovacchia), spesso sono laureati o diplomati” sperano “di trovare nel mondo occidentale […] un posto conforme alle ambizioni e al gusto dell’indipendenza maturato nel loro gruppo sociale e culturale”.[20] Già durante i tardi anni Sessanta, d’altronde, tanto «La Stampa» quanto il «Corriere della Sera» riportavano con grande attenzione le storie di famiglie e individui provenienti da oltrecortina e delle loro richieste di protezione, non mancando spesso di riportarne nomi e professioni: Chimico romeno chiede asilo politico (18 gennaio 1967), Ingegnere ungherese chiede asilo politico (7 marzo 1967), Tre ballerine ungheresi chiedono asilo politico (24 aprile 1967), Prorogato il soggiorno a Genova del professore profugo ungherese, («La Stampa», 31 dicembre 1961). C’era spazio, nel 1969, anche per la commovente storia di una “famigliola” proveniente dalla Cecoslovacchia il cui figlio veniva investito proprio dopo aver fatto richiesta di asilo.[21] «Il Messaggero» insisteva invece soprattutto sul flusso di coloro che, giunti in Italia da turisti, optavano per chiedere asilo appena arrivati: Dieci «tifosi» jugoslavi chiedono asilo politico (31 marzo 1955), Quattro turisti cecoslovacchi fuggono da una nave russa (27 ottobre 1964), A Milano 26 ceki chiedono asilo politico (5 gennaio 1970); di tutti si diceva, con linguaggio tipico della Guerra fredda, che avevano “scelto la libertà”.

            2. Profughi dal Cile

Meno individualizzati, quasi mai descritti attraverso nomi e cognomi o con vezzeggiativi amichevoli, appaiono invece i rifugiati provenienti dal Cile per cui, tuttavia, una parte della stampa si spese con determinazione. Sempre sul «Corriere», in un articolo di prima pagina del dicembre 1963, Alfonso Madeo ricordava il caso dei dissidenti latinoamericani ancora rifugiati nell’ambasciata italiana in Cile e il colloquio avuto con Giulio Andreotti, insieme ad inviati di altre testate, per sollecitare la concessione dell’asilo e il trasferimento in Italia, nonostante gli ostacoli legali. Lo chiamava a ciò l’“impegno civile di contribuire alla sensibilizzazione del potere politico e dell’opinione pubblica sull’urgenza di interventi per la salvezza di quanti si sono affidati alla protezione, alla lealtà dell’Italia”.[22] Anche in questo articolo era ben in mostra la critica al sistema dei centri, dove rischiavano di finire i cileni già accolti a Roma, ma era nuovamente operante la volontà di delineare gli stranieri attraverso le loro professioni: “studenti, medici, professori”.[23]

Il riconoscimento del titolo di rifugiato alle persone in fuga dal Cile fu una delle prime deroghe praticate alla clausola di riserva geografica della Convenzione di Ginevra che, come abbiamo visto, prevedeva lo status di rifugiato politico per i soli esuli europei. Si trattò di una decisione politica, legata alla pressione dell’opinione pubblica, che portò nel paese prima di tutto i cileni che, dopo il golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, si erano rifugiati nell’ambasciata italiana di Santiago.[24] Contava in questa prima deroga tanto l’ormai evidente arretratezza della clausola, quanto il mutato contesto politico, caratterizzato a livello interno dall’attivismo della sinistra, dei sindacati, di parte del mondo cattolico e, come visto, del giornalismo, a favore di un paese e un governo considerati molto vicini. Tra metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo le vicende politiche del Cile assunsero infatti tanto per la DC quanto per il PCI e il PSI un particolare rilievo identitario e si creò “l’insolito fenomeno di vicinanza politica tra Italia e Cile” che avrebbe fatto del paese un nucleo fondamentale tanto per l’accoglienza degli esuli, quanto per l’azione di opposizione al regime anche grazie al supporto di movimenti come l’Associazione “Italia-Cile” (PCI e PSI) e “Chile democrático”, comitato degli esuli.[25]

Nella copertura giornalistica della questione degli esuli dal Cile, dunque, ben emerge il ruolo centrale della politica non solo nel governo legale dei flussi, ma anche nella costruzione, attraverso reti associazionistiche, partiti, sindacati, chiese e volontariato, dei significati della mobilità umana e delle traiettorie di vita, tra permanenza e nuovi spostamenti. La politicizzazione dell’asilo si riflette a sua volta nei resoconti giornalistici di testate, come «la Repubblica», in quei primi anni più schierata e interessata al commento dell’attualità. Nel marzo del 1976, a pochi mesi dalla nascita del quotidiano, Mauro Bene, poi anche caporedattore della sezione politica, definiva l’Amministrazione attività assistenziali, agenzia ministeriale che finanziava i rifugiati politici uno dei “carrozzoni clientelari legati alla pratica del sottogoverno”. L’ente era infatti accusato di voler inviare alcuni cileni nel “lager” del centro di raccolta di Latina e attuare palesi discriminazioni tra le persone accolte: le autorità avevano inizialmente “scambiato il colore dei profughi ritenendoli esuli cubani” e d’altronde l’Aii era creato “per servirsi dei profughi dell’Europa orientale […] come strumento di propaganda anticomunista”.[26]

Gli stessi esuli cileni erano però ben coscienti delle difficoltà e dei privilegi connessi alla loro condizione, oltre che dei delicati equilibri politici mobilitati dall’asilo politico. Nel 1975 «La Stampa» dava voce, come era stato per i dissidenti dall’Europa orientale, all’attività politica dei cileni in esilio, ma anche all’autoriflessione dei protagonisti, raccogliendo la voce di  “Boris, socialista, tipografo”.

«Sappiamo benissimo di essere dei privilegiati, rispetto agli altri esuli che sono fuggiti dalle dittature fasciste dei loro Paesi e si sono rifugiati in Italia. È difficile anche per noi trovare lavoro, ma a noi è stata risparmiata la terribile esperienza dei campi-profughi, la clandestinità, i ricatti […]. […] Sia l’ambasciata sia il governo italiani sono sempre stati sensibili ai nostri problemi. Le forze antifasciste sono concretamente solidali con noi»[27]Il riferimento ai più sfortunati riguardava i rifugiati non europei che, ha ricordato Christopher Hein “dalla metà degli anni settanta iniziarono ad arrivare sempre più” e che “non potendo chiedere asilo allo Stato italiano” ricercavano un mandato di protezione direttamente dall’UNHCR. A partire da quegli anni, tuttavia, furono concesse alcune altre deroghe per determinati rifugiati non europei: oltre ai casi successivi di afghani (1982), caldei iracheni (1988) e curdi iracheni (1988) fu notevole, numericamente e politicamente, il caso nel 1979 dei boat people vietnamiti.[28]

            3. Profughi dal Vietnam

Nell’estate di quell’anno il governo italiano decise infatti di intervenire nel sud-est asiatico con una operazione di salvataggio in mare delle persone in fuga dal Vietnam su imbarcazioni di fortuna, spesso respinte nei tentativi di arrivare in Malaysia, Thailandia e Filippine. Si trattava sia di rifugiati vietnamiti, tra cui molti appartenenti alla minoranza di origine cinese, in fuga dal regime comunista vincitore del conflitto e dall’invasione cinese nel nord della regione, sia di individui e famiglie provenienti da Laos e Cambogia, scosse da conflitti e violazioni dei diritti umani. L’invio di tre navi della marina in un lungo viaggio per portare soccorso nel Mar Cinese Meridionale rispondeva dunque tanto ad un rinnovato contesto di intervento umanitario internazionale quanto, ancora, alle dinamiche ideologiche della Guerra fredda e alla mobilitazione sia dell’opinione pubblica che del settore del volontariato.[29]

L’operazione della marina diventava, così, in un colorito articolo de «La Stampa», l’occasione per presentare un nuovo protagonismo umanitario dell’Italia: si magnificava la presenza a bordo di “unassistenza medica che si spinge fino alla presenza di pediatri, dentisti, neurologi” ma anche la modernizzazione di certe glorie nazionali. L’articolo si concludeva infatti rimandando all’atmosfera esotica dei racconti avventurosi, attraverso le parole del personale di bordo: “«Sandokan è una gloria nostra, ma è anche roba daltri tempi».[30] Due giorni primi il «Corriere» evocava invece le “Caravelle italiane nel mare dei profughi”.[31] Attraverso la narrazione dei quotidiani sui corpi e sull’accoglienza dei profughi, dunque, si arricchiva la costruzione identitaria dello stato e delle associazioni. Anche l’«Avanti!» menzionava in quell’estate le Giornate serene per i profughi vietnamiti ospitati in Italia; nel testo dell’articolo una citazione di un responsabile commentava: “li abbiamo portati ad Asolo, che è uno dei posti più belli d'Italia, forse li stiamo proprio viziando”.[32] D’altronde su molte testate, già nei mesi precedenti, gli inviti all’accoglienza erano stati declinati in senso nazionale. “Presto, l’Italia faccia la sua parte” titolava l’«Avanti!» riportando una lettera di Pertini, all’epoca Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio Andreotti, mentre sul «Corriere» il sociologo Francesco Alberoni rivolgeva un simile appello.[33] Un mese dopo lo stesso Alberoni invitava inoltre a continuare la mobilitazione per la facilitazione dell’asilo, ribadendo che i primi arrivi dal Vietnam erano accolti grazie ad uno sforzo dell’intero corpo della nazione: “Quel poco che abbiamo cominciato a fare è stato voluto da tutti gli italiani, senza alcuna distinzione ideologica o di partito, di sindacato o di classe”.[34]

La natura nazionale dell’accoglienza veniva riproposta ancora mesi dopo dal quotidiano milanese usando pensieri e parole dei rifugiati: festeggiando il Capodanno essi non dimenticavano “un ringraziamento commosso al popolo che ha dato loro asilo” e nei giochi dei bambini si dimostrava che “il salvataggio operato in Estremo Oriente dalla nostra Marina non sarà dimenticato”.[35] In questi trattamenti giornalistici, che danno conto dell’attivazione di una solidarietà civile trasversale, lo straniero finiva dunque spesso infantilizzato, costruito come figura fragile, marginale, spesso passiva e ancorata ad un vissuto di migrazione non cancellabile dall’inclusione. In una breve cronaca da Treviso, molto simile a quella coeva del «Avanti!», «Il Messaggero» spiegava che una volta data sistemazione e organizzazione ai rifugiati “si comincerà a responsabilizzare gli ospiti” anche attraverso una “piccola somma” per “le sigarette e qualche altra piccola spesa” e poi “saranno condotti nei grandi magazzini […] dove potranno vestirsi a loro piacimento” e l’accostamento all’infanzia culminava nella conclusione. “Per tutti sono intanto in preparazione corsi intensivi per apprendere l’italiano e i nostri usi e costumi, compreso l’uso di posate e lenzuola”.[36] L’estraneità del rifugiato, bambino accolto ma da riformare, era ribadita dall’occhiello scelto, che leggeva: “Diventeranno «italiani»?”. A confermare l’impossibilità di una completa inclusione era non solo la forma interrogativa, ma soprattutto l’utilizzo delle virgolette, che sottintendeva per i rifugiati una italianità sempre derivata, di secondo livello, anche per coloro che avessero vissuto e lavorato a lungo nel territorio, senza per altro magari nessun interesse nell’ottenimento della cittadinanza, ma solo alla protezione internazionale.

Per i rifugiati, infatti, l’inserimento nel tessuto del paese passò anche, secondo le ricostruzioni giornalistiche, attraverso il lavoro, ma non senza difficoltà. In un articolo dal tono diverso rispetto a quelli appena citati, «la Repubblica» riportava: “Ad accresce le difficoltà ci sono poi i problemi relativi all’inserimento dei profughi nella società. I comuni di Chioggia e di Jesolo hanno già detto a chiare lettere di non avere offerte di lavoro per i profughi[…]”, ma in fondo già «La Stampa» aveva riportato il disappunto di alcuni cittadini per le presunte preferenze, in ambito lavorativo, tra vietnamiti e italiani.[37] La questione lavorativa suscitava, sul finire del decennio, maggiore discussione rispetto al 1973 poiché era nel frattempo divenuto visibile e discusso il tema dell’afflusso in Italia di lavoratori dall’estero. Era iniziata, definitivamente, la fase dell’immigrazione economica, che occuperà la seconda parte di questa discussione, ma che fu preceduta e in qualche modo preparata dalle traiettorie degli studenti esteri in Italia.

            4. Studenti provenienti dall’estero

In un pezzo curato dal docente di statistica Antonio Corte, all’interno di uno speciale sull’immigrazione, l’«Avanti!» faceva il punto sul numero degli studenti esteri.[38] “Dal 1960 al 1978”, si scriveva, “il numero degli studenti in Italia è passato da 3.500 unità a 28.000: solo nell’anno accademico 1978 si nota un incremento di ben 10.000 unità”, ma la legislazione rimaneva  inadeguata  e garantista rispetto ai numeri e alla varietà degli arrivi: dalla Grecia, soprattutto, ma anche dall’Iran e “dal terzo mondo”.

Nel fenomeno contavano tanto dinamiche tecnico-economiche (come l’assenza del numero chiuso in Italia) quanto soprattutto politiche, come ben registrato da Liliana Madeo su «La Stampa» nel fatidico ’77. Tanti e tante dalla Grecia fuggivano, si diceva, dal regime dei Colonelli, ma a Roma “Il nucleo più consistente […] è costituito da iraniani, sudamericani, palestinesi, turchi, eritrei, armeni […] la fetta più attiva politicamente, un settore in continuo fermento, che tiene contatto con le organizzazioni democratiche clandestine nei Paesi d'origine […]”.[39] La politicizzazione di questi studenti, rifugiati e non solo, era dipinta con tinte insieme preoccupate e canzonatorie sullo stesso quotidiano da un commento di Luigi Firpo. Quella degli studenti stranieri era una “legione” venuta a  “estenuare i vantaggi delle loro monete forti” oppure  “a gridare le loro rabbie cosmopolite […] sui muri” e per capirla serviva “diradare le cortine fumogene, accantonare gli scioperi della fame, sperare che i sindacati sì muovano con cautela prima di solidarizzare a scatola chiusa”.[40] Un linguaggio che, per criticare sistema universitario e la proposta di sospendere per due anni le nuove iscrizioni estere, finiva col rappresentare una sorta di invasione dall’esterno che invece di arricchire il paese poteva al massimo, una volta lasciata l’Italia, fare da ambasciatrice. Tornava l’immaginazione dell’Italia come paese unicamente di transito, in fondo disinteressato ad accogliere in maniera definitiva una categoria che d’altronde nella normativa “non contempla la figura giuridica dello studente straniero” e quindi l’amministrava tramite circolari e disposizioni di polizia.[41]

Spesso le difficoltà erano al centro della costruzione giornalistica sullo studente internazionale, dipinto come fragile e utilizzato anche però per criticare alcune storture nazionali da un punto di vista esterno. A tal proposito è esemplare un articolo de «Il Messaggero» del 1966 che parlando degli studenti esteri a Roma ne notava la precaria situazione economica (“i borsisti del governo italiano sono quelli che stanno peggio”), l’abnegazione, ma anche l’isolamento: “La maggioranza degli studenti stranieri proviene da paesi sottosviluppati, africani e asiatici. Sono ragazzi chiusi, riservati, taciturni”. Se ne raccoglievano anche alcune testimonianze, soprattutto femminili (“un’inglesina troppo bionda” e “una bellissima austriaca”) ma anche queste servivano per dare voce a lamentele sull’Italia senza però mettere estendere una critica profonda. “Se non si riesce a realizzare una maggiore fraternizzazione” concludeva il pezzo, “la colpa è un po’ di tutti, certamente non è dovuta a pregiudizi di sorta”.[42]

Per lo studente internazionale il quotidiano prescriveva insomma il ruolo di elemento straniero rassicurante, transitorio, debole, ma non perturbante per l’assetto politico e sociale nazionale, in particolare quando non legato a movimenti politici. Solo in questi casi, infatti, se ne sottolineava il potenziale ruolo inquietante: dopo l’attentato a Trieste attribuito a Settembre Nero del agosto 1972 il quotidiano romano metteva in guardia rispetto a “l’Università per stranieri di Perugia, alla quale - come già detto - sono iscritti circa duemila arabi” e che “servirebbe a sviare qualsiasi sospetto su riunioni e incontri più o meno segreti”.[43]

Dagli anni Settanta agli anni Ottanta: stranieri a lavoro

            1. Lavoro, città e condizioni di vita

Per quanto sia riduttivo distinguere nettamente tra migranti economici e persone in fuga per ragioni politiche, appare chiara la rilevanza del tema del lavoro nell’accendere l’interesse della stampa italiana per le persone straniere. Sul finire del decennio Settanta si attivò, per ragioni convergenti, un processo sempre più intenso di visibilizzazione mediatica del migrante in cui differenti discorsi, sul mercato lavorativo, sugli spazi cittadini, sulla criminalità, sulla politica, si intersecavano, per dare forma alla nuova figura sociale dell’ “immigrato”, una caratterizzazione che in Italia si rivelò spesso più complessa e disturbante rispetto a quella del rifugiato. 

Si veda per esempio come si apriva sul «Corriere della Sera» un articolo dell’aprile 1979: “Ci ricordano le immagini delle città americane viste al cinema: facce di colore, capelli crespi, gente di ogni razza, dialetti incomprensibili in mezzo alla moltitudine dei visi pallidi. Ormai anche a Milano sono in cinquantamila: sudamericani, arabi, eritrei, somali, filippini, greci turchi. L’Italia della disoccupazione e della crisi apre a loro le porte dei lavori più umili e ormai rifiutati.[44] Per poter percepire l’Italia come meta di mobilità internazionale era necessario ricorrere all’immaginario filmico e al paragone con altri paesi: Hollywood e il cinema, persino quello western (i “visi pallidi” siamo ora “noi” italiani) divenivano filtro per organizzare una percezione tutta sensoriale della città e dei suoi abitanti. Da qui l’articolo proseguiva in una disamina dettagliata della condizione (legale, abitativa e lavorativa) degli stranieri attraverso le opinioni sindacali.  “Clandestini e regolari, profughi politici ed emigrati in cerca di fortuna pagano quasi tutti gli stessi prezzi: una condizione di emarginati, salario e lavoro precari, nessuna tutela sindacale, pochi diritti civili”. Va osservato però anche il ricco titolo, anch’esso determinante nel costruire la notizia e i suoi protagonisti: “Un esercito-ombra con 50 mila stranieri nell’arcipelago sommerso del lavoro nero”. Ritornavano qui i rimandi all’ambito militare (esercito) e all’isolamento (arcipelago), ma a questi si aggiungevano elementi evocativi di oscurità e inconoscibilità. La presenza straniera era trattata come fenomeno sotterraneo, su cui il giornalismo gettava la propria luce, scoprendone e fissandone la marginalità in via di definizione. A lungo la metafora dell’esercito sarebbe stata funzionale ad adombrare tanto il timore dell’invasione quanto a richiamare una marxiana riserva di disoccupati. Nel 1984 ad esempio, su «Repubblica», si testimoniava di “un "esercito" valutato ufficiosamente tra gli 800 mila e il milione; più della metà sono clandestini, spesso sfruttati e sottopagati” che fanno “i minatori, i muratori, i facchini, i braccianti a giornata, gli scaricatori, i domestici”.[45]

Dai primi anni Settanta, d’altronde, l’immigrazione anche africana aveva iniziato ad assumere consistenza in diversi luoghi e settori: in Sicilia si trovavano lavoratori provenienti dal Nordafrica ma lo stesso, ha notato Colucci, avveniva nei centri del nord e non mancava di essere registrato dal giornalismo. I venditori ambulanti della “comunità dei nordafricani (marocchini, algerini e tunisini soprattutto) che […] hanno invaso da qualche tempo Torino” registrati da «La Stampa» nel 1971, in una città svuotata dal ferragosto, abitavano già i margini, erano già “invasori” di uno spazio urbano turbato.[46]Ma gli invasori erano ancora in numero relativo: divenivano visibili nel tempo non ordinario delle festività, erano al lavoro mentre i cittadini regolari invece villeggiavano, e non a caso erano menzionati subito dopo un’altra comunità ai margini, ovvero i “capelloni” che “oziano al sole” in piazza Castello.

Dove, suggeriva il «Corriere della Sera» nel 1973, l’invasione aveva proporzioni massicce era altrove: “L’ondata migratoria in Europa ha ormai le dimensioni di una nèmesi storica. Oltre mille anni dopo le invasioni dei Teutoni nel Mediterraneo, la storia si ripete in senso inverso […]”. Abbondavano anche qui i termini militareschi in relazione alla ricerca di lavoro: “È una truppa di nove milioni di persone […] alla conquista di una lavoro qualsiasi”, “In Germania […] l’invasione dei lavoratori stranieri […] ha raggiunto punte di concentrazione tali che in numerose fabbriche gli operai tedeschi si avviano a diventare minoranza”, alla Ford di colonia c’è “Una legione eterogenea di greci, portoghesi, italiani, spagnoli, jugoslavi, nordafricani, turchi”.[47] L’articolo, che trattava ancora della figura dell’emigrante italiano, non immaginava il paese come terra d’immigrazione, ma guardando all’estero rafforzava gli usi linguistici che caratterizzeranno la mobilità lavorativa in ingresso. L’intervento, inoltre, introduceva la vulgata, contraddetta dalla storiografia ma largamente operante fino a pochi anni fa, che spiegava i nuovi arrivi verso l’Italia con le chiusure e le restrizioni dei paesi esteri, dovute alla crisi petrolifera del 1973 e alla generale fine del ciclo espansivo dei “Trenta gloriosi”.

Con l’andare degli anni Settanta infatti, sempre seguendo le ricostruzioni di Colucci e di Luca Einaudi, le presenze estere in Italia si rafforzarono e distribuirono, dal Lazio al Piemonte, fino all’Emilia e al Veneto, passando per la Lombardia, spingendo politici, operatori e giornalisti a varare la tesi della: “funzione sostitutiva del lavoro migrante”, che interpretava il ricorso alla manodopera straniera sfruttata come frutto del rifiuto degli italiani dei lavori meno riconosciuti.[48]Concordavano con una lettura di questo tipo sia la prima indagine ufficiale Censis, sia un celebre articolo di Romano Prodi sull’edizione romana del «Corriere della Sera», che segnalavano inoltre la rilevanza crescente del lavoro domestico, spesso femminile, diffuso tra donne capoverdiane ma anche, è il caso soprattutto del milanese, tra donne eritree.[49] Una provenienza che ci conferma, una volta di più, l’importanza delle dinamiche politiche e di sicurezza non solo economica nel suscitare spostamenti verso l’Italia: nella scelta della meta contavano sia il trascorso coloniale dell’Italia nel paese, sia la lunga guerra con l’Etiopia, seguita all’annessione del 1962.

Il contesto in cui si situava questa crescita del fenomeno migratorio fu caratterizzato, fino alla prima legge sul tema nel 1986, da un complesso intreccio tra relativa apertura delle frontiere e ambiguità legale: un sistema, è stato scritto: “intriso di discrezionalità e contraddizioni”.[50] Una tale situazione facilitò il rafforzamento di un discorso mediatico di cui abbiamo già visto l’accumularsi degli ingredienti di base: l’arrivo di persone straniere veniva raccontato attraverso il filtro del racket, dell’attività malavitosa, e quindi delle condizioni disagiate e dei rischi criminali, in una combinazione tra indagine sociale e narrazione a tinte forti che spesso incoraggiava la risposta emotiva dei lettori.

Vale la pena di fornirne alcuni esempi. L’ultima puntata di una inchiesta di Claudio Moffa, sulle pagine romane del «Corriere», parlava di lavoro, difficoltà coi documenti, “racket” e “clandestinità”, ma anche di temi nuovi, come la salute sessuale.[51] Era il linguaggio della riforma sociale del XIX secolo che razzializzandosi tornava a popolare il giornalismo e, di nuovo, metteva al centro la città. Già nel 1978 Natalia Aspesi su «la Repubblica» descriveva la visita ai ghetti dell’immigrazione interna con uno stile che ricordava i resoconti sui “bassifondi orientaleggianti” studiati da Dominique Kalifa. La zona era quasi la casbah di Milano, come recitava il titolo, dove si “apre un altro squarcio” della città “analfabeta, incontrollata, nascosta e pericolosa”.[52] È la metropoli che pare diventata brulicante di estraneità: “Roma «metropoli» e «capitale», infatti, non sa contare” i propri stranieri, iniziava l’inchiesta di Moffa, e sempre sul «Corriere» l’anno prima si titolava: “Sono ormai trentamila gli arabi abitanti a Roma”.[53] Dopo aver parlato di “Nabil, ingegnere che lavora in cucina” l’articolo dava spazio alle preoccupazioni: “[…] secondo alcuni, Roma sarebbe diventata da tempo la prima città del Medio Oriente”, c’è perciò chi dice che circolino terroristi e la capitale pare avviata a diventare “il tallone di Achille dell’Occidente”: a fondo pagina, quasi a confermare, campeggiava la cronaca di una violenza sessuale da parte di “quattro nordafricani”.[54]

L’evocazione di città nelle città, di nuovi ghetti anche religiosi, nasce e si rafforza a questa altezza cronologica e continuerà a risultare decisiva in contesto giornalistico anche nei decenni successivi, come dimostrato da Paolo Orrù, riguardando progressivamente anche la provincia.[55] Sulle pagine generalmente seriose di «Repubblica» Catania “scopre” gli immigrati senegalesi quando già è abituata “agli immigrati fuorilegge” che “invadono le strade del centro” e “diventano subito venditori ambulanti” suscitando l’ira dei commercianti locali che, si cita, denunciano “il tentativo di trasformare Catania in una casbah”.[56]

Ma già nel 1978 il «Corriere» ha annotato che a Mazara “l’antica casbah si è ripopolata di arabi” e sei anni dopo il tema è svolto in maniera simile.[57] “La casbah o, più rispettosamente, la medina, nel centro storico di Mazara, è di nuovo abitata da nordafricani. Undici secoli dopo l’invasione arabo-berbera della Sicilia, è il «ritorno infelice» all’isola perduta, ha scritto Antonino Cusumano in un saggio edito da Sellerio.[58] Anche in questi ultimi esempi i marcatori linguistici e simbolici della diversità degli immigrati sono accompagnati dall’accento sulle condizioni di vita e dalle riflessioni di sindaci, sindacati, religiosi, studiosi (Cusumano) e diretti interessati.

            2. La legge Foschi e il racconto dell’ordine pubblico

Accanto alla questione religiosa, già visibile a metà anni Ottanta (“Nel nome di Maometto, Budda e Krishna” titola il «Corriere» parlando di Milano), inizia a divenire caldo il tema dell’ordine pubblico.[59] Nel racconto cronachistico criminalità e immigrazione tendono sempre più ad intrecciarsi, anche se non sempre a prevalere è il punto di vista che colpevolizza la persona straniera. Nel gennaio 1986 nella sezione romana de «Il Messaggero» la notizia dell’assassinio di un egiziano è ricostruita nei macabri dettagli fin dal titolo: “Imballato. Un pacco da gettare”.[60] L’articolo è corredato di una foto del cadavere della vittima, mentre appena sotto si apre lo spazio per le parole delle persone migranti che dall’occhiello accusavano: “Se passa l’equazione lavoratore di colore uguale terrorista sarà anche una sconfitta della vostra democrazia”.[61] “Bisogna colpire chi li sfrutta” scriveva però lo stesso quotidiano qualche anno prima, in un articolo in cui la prospettiva delle forze di pubblica sicurezza era controbilanciata dalle precisazioni del giornalista. Si trattava, scriveva l’autore, “di un fenomeno che non dev’essere affrontato solo con strumenti polizieschi” e di cui quindi il quotidiano dava conto “senza (ovviamente) alcuna prevenzione razzista[…]”.[62]

L’esplicitazione del posizionamento rivela tanto le varie sensibilità giornalistiche, quanto il sentimento di un paese che si sta scoprendo razzista. La vera esplosione del fenomeno, avrebbe sostenuto l’«Avanti!», si sarebbe registrata circa due anni dopo, quando, dopo gli attacchi terroristici a Fiumicino nel dicembre 1985, “si levarono voci per la chiusura delle frontiere, per la cacciata dello straniero, ovviamente l’arabo, l’asiatico, il nero, il sottosviluppato. Tutti potenziali terroristi”.[63] Iniziava così la lunga discussione su razzismo che avrebbe raggiunto l’apice a cavallo del decennio Novanta, in relazione al sorgere definitivo nel 1989 di movimenti sociali antirazzisti e del moltiplicarsi di fenomeni discriminatori e di intolleranza.[64]

Ad intervenire in tale quadro era intanto intervenuta nel 1986 l’approvazione della Legge Foschi che «Il Messaggero», con un titolo maldestro ma che manifestava le sensibilità dell’epoca, chiamò: “Una legge color immigrato”. Sorpassata la soglia razzista del titolo, il contributo valutava in realtà positivamente lo sforzo del legislatore, sottolineando che “l’esercito di immigrati sfruttati, ha ora una legge e non la solita legge antiterrorismo”.[65]

Il provvedimento, con il sostegno anche di opposizioni, associazioni e sindacati, regolava il ricongiungimento familiare, rinforzava il principio di uguaglianza di trattamento, istituiva strutture amministrative e indiceva una corposa sanatoria. La legge, tuttavia, in particolare nella sua parte dedicata al reclutamento all’estero dei lavoratori, non riuscì a dare soddisfacenti risposte organiche ai fenomeni, anche a causa di scarso finanziamento, finendo per stabilizzare la situazione creata dalla precedenti circolari ministeriali. Così tra le maggiori conseguenze del dispositivo ci furono un fenomeno linguistico, ovvero l’ufficializzazione del termine “extracomunitario”, e uno burocratico, ovvero la sanatoria che si protrasse per 15 mesi e con attese e problemi diede nuova visibilità alle persone immigrate.[66]

Dalla seconda metà degli anni Ottanta, infine, lo spauracchio della criminalità si intrecciò tanto agli stereotipi razzisti quanto alla discussione sul lavoro delle persone immigrate. Particolarmente funzionale alla creazione di questa immagine discriminante fu la diffusione della vendita ambulante da parte di persone di provenienza straniera, la cui circolazione simbolica venne rinforzata da tutti i mezzi di comunicazione. Nell’agosto 1985 «La Stampa» dipingeva il fenomeno con stereotipi scanzonati e infantilizzanti: il primo straniero a comparire in scena era un “africano” “nerissimo e assai garbato”, d’altronde “i neri africani […] non stanno lì a contrattare troppo; appena un più petulanti sono i tunisini, gli algerini, i marocchini” e quindi si poteva ancora tenere un tono scanzonato, di rilassante cronaca estiva. Sulle spiagge dove si vendono “oggettini”, c’erano sia i controlli che la solidarietà di alcuni bagnanti, e l’autore occhieggiava perfino ai ritornelli estivi supponendo maliziosamente che per la sua canzone razzista Colpa d’Alfredo “Vasco Rossi si sia ispirato a una vicenda romagnola” di “affetto” tra italiani e immigrati.[67]

Il fenomeno di quelli che presto furono soprannominati “vu cumprà” transiterà negli anni successivi attraverso molti generi giornalistici: dall’informazione sensibile, anche se linguisticamente problematica, all’associazione col crimine. Appartengono al primo genere contributi come Brescia invasa di vu cumprà. Una «casa» per gli immigrati («Corriere della Sera» 8 luglio 1988), L’esercito dei «vu cumprà» all’assalto dei mestieri perduti («Corriere della Sera» 2 giugno 1988), Solo i nostri emigranti possono spiegare come si sentono i «vu’ cumprà» in Italia («Corriere della Sera» 26 novembre 1988),  mentre nel secondo rientrano Nella rete i «vu’ cumprà» della droga («Corriere della Sera» 16 ottobre 1988) ,Gang «vu’ cumprà» («Corriere della Sera» 8 maggio 1989) e soprattutto il grave Ticinese, allarme per i «vu’ drugà» del 27 febbraio 1989. Una manipolazione colpevolizzante di un neologismo già razzista che suscitò, anche sulla stampa concorrente riflessioni e perplessità.

Finisce il Secolo breve: legge Martelli, razzismo e nuovi arrivi

            1. La legge Martelli e il problema del razzismo

Negli studi sulla storia dell’immigrazione in Italia il 1989 è spesso considerato un anno cardine, un punto di svolta sia per quanto riguarda la presenza mediatica del fenomeno, sia per quanto concerne la sua rilevanza politica e sociale. A determinare questo passaggio di fase, che nei paragrafi precedenti abbiamo però visto essere graduale, concorrono almeno due eventi. Da un lato lo sfaldamento dell’organizzazione militare, geografica e amministrativa sottesa alla contrapposizione della Guerra fredda, rappresentata dalla Caduta del Muro di Berlino. Dall’altro l’assassinio, tra il 23 e il 24 agosto, di Jerry Masslo, esule sudafricano impiegato come bracciante irregolare nel casertano, ucciso durante una rapina negli alloggiamenti precari che ospitavano i lavoratori.

L’omicidio, come già accennato, coagulò gli impulsi organizzativi antirazzisti già presenti nel paese, rinforzando l’attivismo sindacale e associazionistico e contribuendo dunque a aumentare la pressione sul governo per intervenire. Proprio in questo clima prese così forma il decreto-legge (ddl 416/1989), poi convertito in legge nel febbraio, a cui viene attribuito il nome di “Legge Martelli” (l 39/1990). Il provvedimento rimuoveva la riserva geografica, tante volte citata, relativa al rifugio di richiedenti asilo, introduceva principi di governo dei flussi, politiche esplicite sui visti in ingresso, trattava (seppur con vaghezza) di politiche di integrazione, e organizzava una nuova sanatoria: si trattò insomma di un primo tentativo organico di governo del fenomeno, ma anche di una legge che frustrò sia chi sperava in severe limitazioni negli ingressi sia chi chiedeva certezza nelle politiche di inclusione.

Le posizioni, anche sui giornali, risultavano complesse e sfumate, amplificando le oscillazioni del mondo politico e intellettuale.  «La Stampa» nel dicembre, durante l’elaborazione del provvedimento, titolava un ambiguo: “Porte aperte agli immigrati” e nella stessa edizione il sociologo Luciano Gallino, nel porre l’accento sullo sfruttamento della manodopera straniera e sugli interessi criminali alla deregolamentazione, evocava un immaginario che rischiava di stigmatizzare gli stessi immigrati: “I segni del loro arrivo incontrollato sono intere strade trasformate in brutte copie del suk di Marrakesh […] interi parchi caduti in mano a spacciatori immigrati […] piazze e strade e locali pubblici nei quali, almeno in certe ore, un non immigrato esita a metter piede.[68] Alcuni mesi dopo, invece, il giornale torinese raccoglieva l’opinione della Conferenza Episcopale Italiana che, contro gli episodi montanti di razzismo, invitava a: “[…] «programmare, intervenire con chiarezza, concedere e rifiutare, selezionare, occorre in qualche modo decidere, ovvero governare la questione».”[69]

Degli episodi di razzismo a Firenze parlava anche Miriam Mafai su «la Repubblica», che però non rifiutava completamente lo stereotipo di una “invasione degli extracomunitari che sollecita rimpianti e alimenta incubi”, mentre il politico cattolico Ermanno Goerrieri invitava a “governare il fenomeno con lo spirito di chi lo accetta” e ragionando sui temi del lavoro e del diritto all’abitare spronava ad investire in “piani di accoglienza e di integrazione”.[70]  A commento tanto della legge Martelli quanto dell’accoglienza a Bari di 54 esuli asiatici, poi, Guido Bolaffi giudicava il provvedimento un “significativo passo avanti del sistema politico italiano sul tema immigrazione” sottolineando però la necessità di dare seguito al controllo delle frontiere, alla programmazione dei flussi e a distinguere “i veri dai falsi esuli”.[71]

Secondo il «Corriere della Sera», era necessaria attenzione, ma il paese viveva ancora una “fase di pre-razzismo”. Nell’articolo, tuttavia, erano riscontrabili i marcatori di un linguaggio che sottolineava la marginalità e che politicizzava il tema immigrazione, ereditando stereotipi del passato ma ibridandoli con nuove formule. Raccontando di un convegno a Bologna l’articolo si apriva paragonando l’immigrato africano ad un “«buon selvaggio»” che si sarebbe “silenziosamente moltiplicato oltre ogni previsione”, con una “crescita esponenziale” smettendo quindi “i panni del mite”. La costruzione giornalistica dello straniero pericoloso iniziava a servirsi dei codici dell’allarmismo sulla salute, evocando i ragionamenti numerici (la crescita esponenziale) e sulla duplicazione delle cellule, che in quegli anni costellavano le cronache sull’AIDS e sull’insorgere di tumori.[72] In questo periodo la persona di provenienza non italiana diveniva dunque sempre più “fatto amministrativo”, le storie personali si intervallavano a considerazioni in cui l’individuo si perdeva nel quadro dei grandi fenomeni internazionali, da regolare attraverso l’intervento di organi nazionali e sovranazionali. 

Tanto la già citata crisi dei paesi comunisti, con la fine dell’ordine della Guerra Fredda e la riunificazione tedesca (settembre 1990), quanto l’approvazione della legge Martelli, con la fine della riserva geografica e le basi di un nuovo governo delle frontiere, aprirono infatti la strada all’adesione italiana alla Convenzione di Schengen, nell’autunno 1990, che stabiliva l’aspirazione a frontiere aperte tra gli stati membri e chiuse verso l’esterno.[73] Ecco che emergeva allora sempre di più l’idea della circolazione di persone come un campo di azione per attori e transnazionali: “La 'fortezza Europa’ invasa dagli immigrati” oppure “Lemigrazione dei profughi URSS nuovo problema per lEuropa” scriveva «la Repubblica» nel 1990, mentre per «La Stampa», nel 1991: “l’Europa alza la diga: a Berlino accordo tra 27 Paesi per bloccare la fiumana di clandestini”.[74] Al centro della discussione c’erano non più solamente gli arrivi di persone dall’Asia e dall’Africa ma anche, nuovamente, dei paesi dell’Europa orientale, le cui frontiere divenivano sempre più permeabili.

            2. La crisi albanese

L’ingresso nel paese di un numero importante di persone provenienti dall’Albania, all’inizio degli anni Novanta, fu una delle prime e più notevoli conseguenze della progressiva dissoluzione degli stati comunisti e dei nuovi equilibri internazionali successivi al 1989. Gli arrivi con il maggiore impatto sull’opinione pubblica si verificarono in due momenti: prima nell’estate del 1990, quando alle persone rifugiatisi in varie ambasciate a Tirana fu concesso il titolo di rifugiati, poi tra la primavera e l’estate del 1991, con numeri e reazioni che marcarono un nuovo cambio di passo nella gestione e nella percezione del fenomeno migratorio. 

Nei primi momenti, a ridosso della decisione da parte dei governi europei di accettare i richiedenti asilo e dell’operazione italiana di recupero navale, le caratterizzazioni della stampa sottolinearono la disponibilità nazionale all’accoglienza e riattivarono immagini tipiche della contrapposizione tra blocchi. Quelle inviate a Durazzo dall’Italia erano “navi della libertà” in due titoli de «La Stampa» (Andrea di Robilant, 12 luglio 1990 e Fulvio Milone, 13 luglio 1990) ma anche sul «Corriere della Sera» (Nell’Adriatico, una barca chiamata libertà, 12 luglio 1990), mentre su «Il Messaggero» ad essere finalmente liberi erano proprio gli  stessi albanesi appena sbarcati (Brindisi, liberi gli albanesi, 14 luglio 1990). Le descrizioni dei rifugiati appena sbarcati si richiamavano, anche esplicitamente, ad un genere che lo stesso «Il Messaggero» chiamò degli “oleografici «quadretti di profugo»”, ricco di “sirene delle navi, fazzoletti, ma anche bambini sollevati come pupazzi di stoffa, lacrime, vestiti a pezzi, borse a rete o di plastica con quattro cose dentro, scarpe da tennis ma anche qualche piede nudo…” un campionario sentimentale che sottolineava la miseria e la speranza dei nuovi arrivati, rendendoli soggetti non minacciosi e meritevoli della generosità nazionale. Le traversate, scriveva ancora Tasciotti nell’articolo,  erano “tutte concluse gridando «Italia»”[75] e da esse sbarcava, secondo un titolo di «Repubblica»,“un popolo di fantasmi” (Dai traghetti sbarca un popolo di fantasmi, Vincenzo Nigro, 14 luglio 1990) che appena sbarcato, scriveva Bruno Tucci sul «Corriere», trovava “la terra promossa, la libertà, la democrazia”.[76] Nel nostro paese queste persone cercavano una prosperità da sogno e l’aiuto della popolazione di antica discendenza albanese: “In Italia, c’è chi si è detto subito pronto ad ospitare i profughi. Ad esempio, la comunità albanese, numerosissima specialmente in Calabria, Sicilia e Puglia” diceva il «Corriere» e anche su «La Stampa» si notava il medesimo fenomeno.[77]

Eppure già pochi giorni dopo, l’inviato del quotidiano torinese Giuseppe Zaccaria sintetizzava timori e riluttanza delle comunità arbëreshë in un colorito pezzo che ancora sceglieva di mettere al centro le difficoltà e le contraddizioni italiane. “[…] nonostante il rincorrersi di promesse e illusioni, il Mezzogiorno tutto potrà diventare tranne che luogo d'asilo per i reduci dell'ultimo regime stalinista d’Europa” scriveva Zaccaria, che citando l’eparca di Cosenza tornava a caratterizzare il paese come un luogo di rifugio solo temporaneo: “meglio pensare subito a questo soggiorno come a un ponte verso soluzioni più praticabili: gli Stati Uniti, il Canada”.[78] Nell’agosto il «Corriere della Sera» pubblicava un articolo simile per toni e contenuti: “Erano stati accolti al porto di Brindisi come martiri della libertà, neppure due mesi più tardi sono diventati pacchi ingombranti da scaricare in fretta”[79]

Era pronto insomma il bagaglio retorico che avrebbe contrassegnato nel resoconto giornalistico anche gli eventi dei mesi successivi, con la critica alla scarsa organizzazione degli apparati statali e l’accentuazione della miseria degli albanesi. Alle prime partenze numericamente più consistenti di inizio marzo 1991 «la Repubblica» notava già che per questi profughi: “Il Palazzo è rimasto assente”, si registravano “disinteresse e rifiuto” mentre i richiedenti asilo “Girano spaesati, per le vie di Otranto[…]”.[80] La situazione era descritta come già critica, il giorno dopo il foglio annunciava nel titolo una “Marea di profughi dall’Albania” e l’inizio dell’articolo era evocativo, nel linguaggio e nella punteggiatura, di una massa umana alla deriva. Il soggetto, le persone albanesi in fuga, non erano nominate esplicitamente, ma sottintese dietro ad un minaccioso “loro”:  Arrivano ancora. Arrivano in cinque, dieci, duecento, ottocento. Arrivano a bordo di chiatte, rimorchiatori, battelli coperti di ruggine usciti da chissà quale incubo di marinaio. Arrivano su piccole imbarcazioni a motore, su fragili battelli di legno che hanno come remi delle pale da contadino.[81]

In Puglia erano giunte secondo «La Stampa» “torme di sbandati in cerca di sopravvivenza”, il porto brindisino era “irriconoscibile”, “attraversato da gruppi di albanesi senza nome”.[82] Pochi giorni dopo i migranti sbarcati a Brindisi superando i blocchi navali erano descritti mentre disperatamente cercavano cibo: “Un cordone formato da una decina di poliziotti è stato travolto. Una furia scatenata ha cominciato ad ingozzarsi con quello che trovava.[83] Nella titolazione del giorno dopo il quotidiano insisteva sull’immagine dell’invasione (“L’assalto dei boat people) e sulle responsabilità del governo: Brindisi non regge l’urto dei ventimila albanesi che l’hanno invasa” mentre nel testo tornava il tema della città, chiamata a reagire da sola. Ad aggravare la situazione e a far temere il peggio, di pomeriggio nella città storica manca l’acqua. Le vie strette sono intasate dagli stracci abbandonati dagli albanesi non appena essi hanno potuto togliersi di dosso giacche e maglie, sostituendole con quello che offriva loro la popolazione. […] La città viene disinfettata negli angoli dove, seppure con pudore, molti profughi hanno adempiuto alle necessità fisiologiche.[84]  Sul giornale torinese, dopo gli sbarchi forzati dell’otto, si diceva che “Il porto di Brindisi sembra un gigantesco campo di concentramento dove regnano fame e paura” e che “È come se lo Stato fosse stato messo ko da questa immensa forza d'urto fatta di gente lacera, stremata.”[85] Quando finalmente, dopo cinque giorni, l’intervento del governo centrale entrava a regime, il «Corriere» dipinge una città che offriva: “uno spettacolo indecoroso che dimostra la poca solidarietà che il nostro Paese ha offerto a questi disgraziati fuggiti dall’Albania in cerca di lavoro e libertà”.[86]

Immigrazione e accoglienza erano dunque, lette attraverso il prisma della miseria e dell’ingenuità dei nuovi arrivati, specchi che rivelavano anche contraddizioni e arretratezze dell’Italia. Le cronache delle settimane successive raccontavano però anche gli sforzi e le difficoltà di un’accoglienza che tentò di articolarsi su tutto il territorio. I reportage giornalistici spaziavano dalla cronaca sui permessi temporanei di lavoro, sulla scarsa concessione dello status di rifugiato, alle notizie sui numerosi rimpatri e sui crimini e le presunte diversità degli albanesi.

L’agosto del 1991 segnò una ulteriore evoluzione della situazione e una linea politica di esplicita e rigida chiusura rispetto agli arrivi dall’Albania, in parte anticipata da nuovi atteggiamenti già a giugno (Corrado Ruggeri, Fuori tutti e subito, sono clandestini, «Corriere della Sera», 15 giugno 1991, Ora gli albanesi sono uguali a tutti gli immigrati, 16 luglio 1991). Dal porto di Durazzo il 7 agosto salpò la nave Vlora, con a bordo all’incirca 18.000 persone che ne forzarono la partenza prima di approdare, dopo un respingimento a Brindisi, l’8 agosto nel porto di Bari. Sia Valerio De Cesaris che Michele Colucci hanno ricostruito nei dettagli, all’interno dei loro libri, la confusione delle disposizioni governative che disponevano il concentramento e il rimpatrio degli albanesi e la difficoltà nel metterle in pratica. Le persone, sbarcate in ogni modo dall’imbarcazione, si trovarono così prima ammassate senza cibo, acqua e assistenza medica nelle zone del porto e successivamente costrette in circa 6000 nello stadio della Vittoria, in attesa di rimpatrio e in precarie condizioni sanitarie. Tucci sul «Corriere della Sera» parlava di “uno spettacolo drammatico, perché questi diecimila e più esuli albanesi, che hanno voluto tentare un difficilissimo viaggio della speranza verso la libertà, non hanno quasi più nulla di umano. Il viso scavato, gli occhi cerchiati, la bocca impastata: urlano frasi disperate, cercando solidarietà” e notava che diversi dei profughi erano armati.[87] Più duro sulle stesse pagine era Massimo Nava che commentava anche la reclusione nello stadio e la guerriglia tra forze dell’ordine e fuggiaschi: “L'Europa senza muri e senza confini ricorderà lapena infinita di questo lager”  criticava l’“imprevidenza e confusione” dell’organizzazione ma ammetteva anche che “L’immagine del lager è cruda, ma non c’erano alternative”[88]. Il giorno dopo tornerà a parlare di una “decisione umanamente vergognosa, una situazione esplosiva e incontrollabile” ma guardando ai rinchiusi e alla loro violenza disperata annotava: “Ridotti come bestie in gabbia, i profughi fanno paura. Sono vandali inferociti”, “dentro lo stadio è l’inferno. Si odono colpi di pistola, imprecazioni, disperate richieste di aiuto.[89]

«Il Messaggero» fu nell’ampiezza della copertura e nella scelta delle foto meno drammatico, ma parlò comunque di “scenario da inferno dantesco”.[90] Sulla scelta dello stadio, Stanganelli parlava di una scelta rivelatisi “un boomerang” dove “Migliaia di esseri umani inferociti dal caldo e dalla sete stanno procedendo al suo sistematico smantellamento” e riprendeva anche le motivazioni del governo a proposito dei ritardi, mentre sulla stessa pagina più critico era Marcello Favale che parlava di “una giornata tragica, dalla quale esce sconfitta, ancora una volta l’organizzazione italiana”[91]. Il giornalista reiterava il giorno successivo: “la situazione dal punto di vista organizzativo è precipitata sin dalle prime ore, con una serie di errori iniziati proprio dalla scelta dello stadio come luogo di raccolta di 8.000 persone stanche, affamate ed arrabbiate che in poche ore hanno trasformato lo stadio in un inferno”.

Anche Francesco Grignetti su «La Stampa» del 9 agosto parlava di “uno scenario dantesco, dove i dannati erano migliaia di albanesi costretti alla tortura della sete”.[92] L’inviato La Licata, commentando la guerriglia ancora in corso, raccontava di momenti in cui “non si riesce a controllare gli istinti, la violenza prevale.”[93] Anche nel contributo dello stesso autore del giorno successivo veniva instaurato un collegamento tra perduta libertà e una istintualità sempre meno umanità. Bari era definita un lager, senza più virgolette o giri di parole (ma nella titolazione gli albanesi erano soltanto “«prigionieri»”) e ciò sembrava determinare una mutazione quasi animalesca nei profughi: “Chiedono cibo. A sciami, si muovono quasi meccanicamente. Seguono, come topi ammaliati dal flauto magico, chiunque abbia tra le mani qualcosa che possa risultare appetibile”. Nella zona del porto il linguaggio trova non più individui ma “massa brulicante”, mentre a fuggire verso il centro della città sono “veri e propri fantasmi senza identità”. Dentro allo stadio, poi, “Parlare di inferno può sembrare riduttivo: lì, migliaia di persone hanno bivaccato per tre giorni. I cessi possono aver retto solo per qualche ora, poi tutto è diventato gabinetto”. Il molo è un “altro girone dantesco” e i migranti sono “immersi in una immonda poltiglia nera di piscio e polvere di carbone”. I simboli che marcano la scomparsa umanità sono ancora utilizzati: gli albanesi sono descritti come “manichini anneriti dal carbone, con gli occhi affossati per la fatica”.[94]

Su «Repubblica» i toni sono meno evocativi, ma costante è il rimando alle atmosfere dantesche e non manca anche in questo contesto una riflessione sulla perduta umanità dei profughi. Ne “L’inferno chiamato Bari” i bus per i rimpatri attendono un “carico umano sfinito e maleodorante” mentre i bambini appena tornati dai ricoveri ospedalieri: “Sembrano esseri umani. Del tutto diversi dalle "bestie" stremate dalla sete e dalla fame a cui stanno per ricongiungersi”. Accanto a questa descrizione che lascia poca umanità agli sbarcati si distingue, di nuovo, la critica alla scelta dello stadio: “Sono ormai diventati dei reclusi. Non sono più dei profughi. Sono dei prigionieri. All'interno del lager Della Vittoria dove nessun poliziotto ha più il coraggio di entrare, la rivolta è ricominciata”.[95]

Conclusioni

Una sommaria ricognizione come questa, pur nella sua inevitabile parzialità, può forse contribuire a focalizzare e a storicizzare almeno un nodo fondante per la strutturazione del discorso pubblico sulle persone migranti.

Scegliendo un’ottica che considera anche i decenni precedenti agli anni Ottanta, appare infatti notevole la continuità nell’attribuire alla persona straniera una forte valenza politico-simbolica, che ritrova nei motivi dello spostamento alcuni caratteri del paese ospitante. Nello scrivere sulla mobilità delle persone i quotidiani attivano una dialettica che permette potenzialmente ai lettori di riconoscere la propria identità nazionale in chi ne è escluso. I rifugiati provenienti da regimi dittatoriali incarnano la libertà e il suo esercizio in quanto valore fondante dell’ordine occidentale, mentre i flussi provenienti dall’Africa, ricondotti esclusivamente a ragioni economiche, certificano il raggiungimento di un benessere desiderabile da oltre i confini nazionali. Le descrizioni giornalistiche esaminate restituiscono così il rifugiato come soggetto che aspira alla libertà e i paesi del blocco occidentale come spazio, non solo geografico, per la realizzazione di questo desiderio. Similmente, l’esercizio giornalistico tratteggia il migrante come desideroso di una ricchezza che il paese d’arrivo può promettere, simbolo di uno “sviluppo” finalmente giunto a compimento.

Il godimento della libertà, il cui esercizio dovrebbe rappresentare la realizzazione massima dell’ordinamento democratico, non è però quasi mai completo, ostacolato dalla dura realtà del controllo burocratico e dalla costrizione in campi e strutture d’accoglienza, così come mai interamente garantita è l’acquisizione di uno status economico parificato. L’arrivo di persone di provenienza estera evidenzia dunque anche pregi e difetti della comunità nazionale, del suo governo e dei suoi cittadini. Nella continua elaborazione di un’idea nazionale da fornire ai diversi pubblici il quotidiano a grande tiratura trova quindi un principio attorno a cui organizzare notizie, commenti, inchieste e editoriali.



[1] Zygmunt Bauman, Making and Unmaking of Strangers, «Thesis Eleven», 1 1995, p. 1

[2] Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma-Bari, Laterza, 2018, p. 54. Ed. originale 1983; Marco Binotto, Marco Bruno, Valeria Lai, Tracciare confini. Limmigrazione nei media italiani, Milano, FrancoAngeli, 2016, pp. 16 e 17.

[3] Anne-Marie Fortier, Migrations studies, in Routledge Handbook of Mobilities, New York, Routledge, 2014, p. 69.

[4] Ibid., p. 64.

[5] Silvia Salvatici, Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 147

[6] Pamela Ballinger, The World Refugees Made. Decolonization and the Foundation of Postwar Italy, Ithaca and London, Cornell University Press, 2020, p. 11. Sul “passaporto di Nansen” (1922) e le politiche di riconoscimento dei rifugiati della Società delle Nazioni in quanto riferite a gruppi: Salvatici, Nel nome degli altri, pp. 150-151. Sul successivo approccio individualistico, invece: 213-215. Sui profughi italiani anche Emanuele Ertola, Navi bianche. Il rimpatrio dei civili italiani dall’Africa Orientale Italiana, in «Passato e presente», 91 2014, pp. 127-143. Si considerino, inoltre, tra questi ritorni anche quelli dalla Libia di Gheddafi negli anni Settanta.

[7] Ballinger, The World, p. 4. Traduzione mia; Salvatici, Nel nome degli altri, pp. 213-215.

[8] Di “strumento” o “intervento” coattivo parla Pietro Costa, Il “campo”: un paradigma? Introduzione, in Eliana Augusti, Antonio M. Morone e Michele Pifferi (a cura di), Il controllo dello straniero. I “campi” dall’Ottocento a oggi, Roma, Viella, 2017, pp. 11-30.

[9] Salvatici, Nel nome degli altri, pp. 199-200.

[10] Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008. Per le cit. pp. 83 e 112.

[11] Matteo Sanfilippo, I campi in Italia nel secondo dopoguerra, in «Meridiana», 86 2016, pp. 41-46, per la cit. p. 46. Sulla questione degli esuli (termine ricco di significati politici scelto dagli stessi protagonisti) giuliano-dalmati: Enrico Miletto (a cura di), Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano e dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Seb27, 2012; i saggi di Pupo, Orlić, Crainz e altri in Guido Crainz, Raoul Pupo e Silvia Salvatici, Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Roma, Donzelli, 2008. 

[12] Costantino Di Sante, Stranieri indesiderabili: il campo di Fossoli e i centri raccolta profughi in Italia (1945-1970), Verona, Ombre corte, 2011.

[13] Stefano Gallo, Profughi e accoglienza. interpretazioni e percorsi di ricerca, «Meridiana», 86 2016, pp. 21-39

[14] Giulia Angeletti, Il Campo Profughi Stranieri «Rossi Longhi» di Latina (1957-1989), «Studi Emigrazione», 187 2012, pp. 431-446. Sulla crisi dei rifugiati ungheresi in prospettiva globale: Peter Gatrell, Free World? The Campaign to Save the World’s Refugees 1956-1963, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, pp. 49-57. Sulle fughe politiche della Guerra fredda anche: Philipp Ther, Ai margini della società. Fuga, rifugiati e integrazione nell’Europa moderna, Rovereto, Keller, 2024, pp. 274-306.

[15] Silvia Salvatici, Missing the Global Turn: Italy, the 1951 Refugee Convention, and the Belated Removal of the Geographical Limitation, «European History Quarterly», 2 2023, pp. 357-378.

[16] Arnaldo Geraldini, Passano per Trieste i profughi clandestini che hanno chiesto asilo politico allItalia, «La Stampa», 5 settembre 1965.

[17] Lamberto Furno, L’«arcipelago» dei profughi, «La Stampa», 2 novembre 1975

[18] Ivi

[19] Livio Zanotti, A Roma una “centrale” del mercato dei negri. Un sardo li ospitava, dormivano sulla paglia, «La Stampa», 19 luglio 1972; Id., La tratta dei negri, «La Stampa», 25 luglio 1972; Paolo Menghini, Il «negriero» coinvolge l’ex-direttore del Centro raccolta profughi di Farfa, «Corriere della Sera», 26 luglio 1972; S.N., Destituito a Farfa il direttore del campo profughi, «Il Messaggero», 25 luglio 1972; Umberto Ottolenghi, I negri dicono: «non siamo assassini cerchiamo lavoro»,«Il Messaggero», 19 luglio 1972. Sono del 1968 due articoli del «Messaggero Veneto» e del «Gazzettino» dedicati all’espatrio clandestino citati da Colucci, Storia dell’immigrazione, p. 44.

[20] Stefano Reggiani, Nella Trieste dei profughi, «La Stampa», 5 ottobre 1974.

[21] S.N., Piccolo profugo all’ospedale, «Corriere della Sera», 9 aprile 1969

[22] Alfonso Madeo, Salvare i rifugiati nell’ambasciata italiana in Cile, «Corriere della Sera», 16 dicembre 1973. Anche il corrispondente de «Il Messaggero» Pino Cimò partecipò all’incontro con l’onorevole: Pino Cimò, La Farnesina non interviene per salvare i rifugiati nella nostra ambasciata in Cile, «Il Messaggero», 17 dicembre 1973.

[23] Madeo, Salvare i rifugiati.

[24] Sulla vicenda del rifugio in ambasciata: Erminio Fonzo, Chilean Refugees in Italy: a Forgotten Story, in Erminio Fonzo e Hilary A. Haakenson (a cura di), Mediterranean Mosaic: History and Art, MK, Fisciano, 2019, pp. 187-211.

[25] Alessandro Santoni, Il PCI e i giorni del Cile. Alle origini di un mito politico, Roma, Carocci, 2008, pp. 193-201 e p. 58 per la citazione.

[26] Mauro Bene, Profughi cileni rischiano di finire nel lager, «la Repubblica», 14 marzo 1976

[27] Liliana Madeo, La vita dei profughi cileni che ricevono asilo in Italia, «La Stampa», 9 febbraio 1975.

[28] Christopher Hein (a cura di), Rifugiati. Vent'anni di storia del diritto d'asilo in Italia, Roma, Carocci, 2010,  p. 36. 

[29] Salvatici, Missing the Global Turn, p. 371-374Mara Dinunno, L’accoglienza dei boat people vietnamiti in Italia, «Studi Emigrazione», 164 2006, pp. 875-886; Per una panoramica internazionale e sul tema dei ricollocamenti: Becky Taylor et. all. (a cura di), When Boat People Were Resettled, 1975-1983, ChamPalgrave Macmillan, 2021.

[30] Mimmo Candito, A Singapore con le navi italiane che da domani cercano i profughi, «La Stampa», 24 luglio 1979.

[31] Giuliano Zincone, Con tre caravelle italiane nel mare dei profughi, «Corriere della Sera», 22 luglio 1979.

[32] S.N., Giornate serene per i profughi vietnamiti ospitati in Italia, «Avanti!», 23 agosto 1979. 

[33] Piero V Scorti, “Presto, l’Italia faccia la sua parte”, «Avanti!», 22 giugno 1979; Francesco Alberoni, L'Italia ospiti 50 mila vietnamiti che stanno morendo, «Corriere della Sera», 18 giugno 1979. «la Repubblica», con Tiziano Terzani come corrispondente dalla zona diede contò degli appelli ma anche delle polemiche suscitate. Vd. S.N., “L’Italia accolga 50 mila esuli”, «la Repubblica», 19 giugno 1979.

[34] Francesco Alberoni, A Roma i primi profughi dal Vietnam, «Corriere della Sera», 14 luglio 1979.

[35] Renato Ferraro, A Jesolo i profughi vietnamiti festeggiano il Capodanno lunare, «Corriere della Sera», 7 ottobre 1979

[36] S.N., I profughi Viet stanno già ambientandosi, «Il Messaggero», 23 agosto 1979.

[37] Roberto Bianchin, Nessuno sa dove metteremo i “boat people”, «la Repubblica», 6 agosto 1979; S.N., Vietnam: rimorsi o buon cuore?, «La Stampa», 1 luglio 1979.

[38] Antonio Cortese, La questione degli studenti esteri, «Avanti», 20 giugno 1981

[39] Liliana Madeo, Studenti profughi, «La Stampa», 1 luglio 1977.

[40] Luigi Firpo, Studenti stranieri scacciati, «La Stampa»17 luglio 1977. Politicizzazione, solidarietà e network degli studenti sono indagati in Simona Berhe, Studenti internazionali nellItalia repubblicana. Storia di un’avanguardia, Milano, Mimesis, 2023.

[41] Paolo Caputo, Il ghetto diffuso. L’immigrazione straniera a Milano, Milano, FrancoAngeli, 1983.

[42] R.D., Per gli studenti stranieri non è facile vivere a Roma, in «Il Messaggero», 29 marzo 1966.

[43] Luigi Palazzoni, Duemila studenti arabi all’Università di Perugia, «Il Messaggero», 8 agosto 1972.

[44] Massimo Nava, Un esercito-ombra con 50 mila stranieri nell’arcipelago sommerso del lavoro nero, «Corriere della Sera», 4 aprile 1979

[45] S.N., Mezzo milione di stranieri clandestini nel nostro paese, «la Repubblica», 10 giugno 1984

[46] S.N., Quando la città è vuota, «La Stampa», 14 agosto 1972.

[47] S.N., Ripercorrono senza tregue l’Europa le correnti delle nuove migrazioni, «Corriere della Sera», 27 agosto 1973

[48] Colucci, Storia dell’immigrazione p. 62.

[49] Censis 1979 e Romano Prodi, L’Italia è diversa e mancano i negri, «Corriere della Sera», 19 agosto 1977

[50] Colucci, Storia dell’immigrazione, p. 68.

[51] Claudio Moffa, Immigrati, ecco l’altra metà del cielo, in «Corriere della Sera», 26 aprile 1985

[52] Natalia Aspesi, Nella casbah di Milano, «la Repubblica», 4 dicembre 1978.

[53] Claudio Moffa, Da Capoverde a Trastevere per lavorare, «Corriere della Sera», 16 marzo 1985

[54] Lorenzo Fuccaro, Sono ormai trentamila gli arabi abitati a Roma, «Corriere della Sera»,  26 gennaio 1984

[55] Paolo Orrù. Il discorso sulle migrazioni nell'Italia contemporanea. Un’analisi linguistico discorsiva sulla stampa, Milano, FrancoAngeli, 2017 pp…. capitolo 6

[56] Giovanni Iozia, Così Catania ha scoperto la “colonia” del Senegal, «la Repubblica», 2 giugno 1984

[57] Felice Cavallaro, Mazara: l’antica casbah si è ripopolata di arabi, «Corriere della Sera» 10 luglio 1979

[58] Giancarlo Pertegato, I tunisini nella Casbah di Mazara, «Corriere della Sera», 19 marzo 1984

[59] Gian Luigi Paracchini, Nel nome di Maometto, Budda e Krishna, «Corriere della Sera», 31 marzo 1985

[60] Maurizio Modugno e Muzio Pignalosa, Imballato. Un pacco da gettare, «Il Messaggero», 16 gennaio 1986

[61] D. M., «Chiediamo leggi, garanzie e lavoro per bloccare razzismo e caccia all’uomo», «Il Messaggero», 16 gennaio 1986.

[62] Nando Tasciotti, Bisogna colpire chi li sfrutta, «Il Messaggero», 13 gennaio 1984

[63] Luigi Pallottini, Teniamo lontano dal Paese l’orrendo morbo del razzismo, «Avanti!», 6 febbraio 1987

[64] Michele Colucci, Il movimento antirazzista in Italia e le politiche migratorie, 1989-2002, in «Italia Contemporanea», 297 2021, pp. 124-144; più in generale tutto il numero della rivista dedicato al tema e curato Francesco Cassata e Guri Schwarz.

[65] Francesco Lo Piccolo, Una legge color immigrato, «Il Messaggero», 30 dicembre 1986

[66] Einaudi, Le politiche dell’immigrazione, pp. 123-132; Colucci, Storia dell’immigrazione, pp. 74-77; 

[67] Franco Giliberto, Arriva un africano carico di…, «La Stampa» 10 agosto 1985. Si noti che l’infantilizzazione della persona afrodiscendente si attiva già dal titolo, che richiama le filastrocche per i più piccoli.

[68] Andrea di Robilant, Porte aperte agli immigrati, «La Stampa», 17 dicembre 1989; Luciano Gallino, L’ipocrisia delle porte aperte, «La Stampa», 17 dicembre 1989.

[69] Mario Tosatti, I vescovi: sugli immigrati legge insufficiente, «La Stampa», 8 marzo 1990

[70] Miriam Mafai, Firenze scopre la paura del nero, «la Repubblica», 6 marzo 1992; Ermanno Gorrieri, Il triste muro antimmigrati, «la Repubblica», 21 febbraio 1990

[71] Guido Bolaffi,  La farsa degli immigrati, «la Repubblica», 4 marzo 1990.

[72] Marzio Breda, Chi ha paura dell’immigrato, «Corriere della Sera», 1 febbraio 1990

 

[74] Marco Ansaldo, Lemigrazione dei profughi URSS nuovo problema per lEuropa, «la Repubblica», 1 dicembre 1990; Emanuele Novazio, L’Europa alza la diga, «La Stampa», 1 novembre 1991; 

[75] Nando Tasciotti, Brindisi, liberi gli albanesi, «Il Messaggero», 14 luglio 1990

[76] Bruno Tucci, Dall’Albania alla Terra promessa, «Corriere della Sera», 13 luglio 1990

[77] Bruno Tucci, Ultime ore d’attesa nel bunker Albania, in «Corriere della Sera» 12 luglio 1990; Fulvio Milone, La Puglia si prepara all’emergenza, «La Stampa», 12 luglio 1990

[78] Giuseppe Zaccaria, Fratello albanese non siamo mica l’America, «La Stampa», 13 luglio 1990.

[79] A. Sa., Benvenuti albanesi, ma ripartite presto, «Corriere della Sera», 11 agosto 1990

[80] Claudio Gerino, Fuga dall’incubo albanese, «la Repubblica», 5 marzo 1991

[81] Claudio Gerino,  Marea di profughi dall’Albania, «la Repubblica»,  6 marzo 1991

[82] Francesco La Licata, La Puglia chiude i porti, «La Stampa», 7 marzo 1991

[83] Leandro Turriani, A Brindisi forzano il blocco e entrano in porto, «Il Messaggero», 8 marzo 1991

[84] Leandro Turriani, Profughi, ore drammatiche, «Il Messaggero», 9 marzo 1991

[85] Fulvio Milone, In mare battaglia della disperazione, «La Stampa», 8 marzo 1991

[86] Bruno Tucci, Arrivano i soldati, Brindisi spera, «Corriere della Sera», 11 marzo 1991.

[87] Bruno Tucci, Viaggio da un inferno all’altro, «Corriere della Sera», 9 agosto 1991

[88] Massimo Nava, Nella notte infuria la battaglia, «Corriere della Sera», 9 agosto 1991

[89] Massimo Nava, Guerriglia per sfuggire alla beffa, «Corriere della Sera», 10 agosto 1991

[90] Marcello Favale, Albanesi a valanga sulle coste, «Il Messaggero», 9 agosto 1991

[91] Mario Stanganelli, Un inferno lo stadio di Bari, «Il Messaggero», 10 agosto 1991; Marcello Favale, Scontri, sparatorie, feriti. Si parla anche di morti alla “Vittoria”, «Il Messaggero», 10 agosto 1991

[92] Francesco Grignetti, Il sogno dei profughi muore allo stadio, «La Stampa», 9 agosto 1991

[93] Francesco La Licata,  La guerra di un popolo in fuga inseguito da sete e fame, «La Stampa», 10 agosto 1991.

[94] Francesco La Licata, «Almeno a Tirana avevo da mangiare», «La Stampa», 11 agosto 1991.

[95] Barbara Palombelli, L’inferno chiamato Bari, «Repubblica», 10 agosto 1991