I primi decenni: profughi, limitazioni legali e studenti stranieri
1. Profughi da oltrecortina
L’Italia, con lo strutturarsi della Guerra fredda, divenne prima di tutto un paese di primo passaggio, di transito, per le persone in fuga dai paesi del blocco socialista. Per costoro, in attesa del giudizio sullo status che ne avrebbe consentito la partenza verso altri paesi, si aprirono spesso le porte di nuovi campi, come a Latina, dove nel 1957, per accogliere e permettere il trattamento burocratico degli esuli provenienti dall’Ungheria comunista, si apri il Caps "Roberto Rossi Longhi”.[1] In particolare tali arrivi furono favoriti dalla rimozione, nel 1967 con il Protocollo di New York, della riserva temporale applicata dal nostro paese al dettato della Convezione di Ginevra. Nonostante i numeri non elevatissimi (circa 37.000 le persone transitate per il Caps di Pedricciano, a Trieste, tra 1952 e 1962) Silvia Salvatici ha di recente proposto di riconsiderare la convenzione dell’Italia in quanto semplice paese di transito, sottolineando invece la rilevanza dell’esperienza nello strutturare approcci e percezioni locali e nazionali, seguendo non solo le faglie della Guerra fredda.[2]
La possibilità che i richiedenti asilo si stabilissero in Italia definitivamente fu tuttavia rappresentata dalla stampa quasi sempre come remota o sorprendente. Scriveva il torinese «La Stampa» nel 1965 che i circa 50.000 arrivati dal 1952: “Volevano assistenza per emigrare in Svezia, nel Canada, in Australia, o addirittura trovare lavoro fra noi”, poiché dopo la ratifica della Convenzione di Ginevra “l’Italia diventò una specie di trampolino di lancio per chi intendeva farsi una nuova patria”.[3] L’articolo proseguiva poi spiegando il sistema di valutazione legale, la dura permanenza nei centri e l’elevato profilo professionale dei protagonisti. Si tratta di tratti della narrazione giornalistica che, come vedremo, si riveleranno duraturi.
Nel 1975, ad esempio, sempre «La Stampa» titolava di un «Arcipelago» dei profughi, echeggiando il libro appena tradotto di Aleksandr Solženicyn e inaugurando una formula fortunata. Evocando “l’arcipelago” si attribuivano al fenomeno dell’asilo contorni numericamente poco chiari, sottolinenando l’isolamento delle persone coinvolte e la privazione di libertà, ma implicitamente si ribadiva anche il legame tra migrazioni e fuga dal comunismo.[4] D’altronde Lamberto Furno, nell’articolo, non mancava di criticare, citando un esperto dell’UNHCR, la scelta da parte italiana di limitare l’asilo alle persone provenienti dall’Europa, utilizzando la già citata clausola di riserva geografica. Nonostante il teorico divieto, tuttavia, tali persone extra-europee confluivano ugualmente “nei campi di raccolta” dei quali si descrivevano le durezze, anche attraverso testimonianze dei diretti interessati, come quella di Jiří Pelikán “uno dei protagonisti della primavera di Praga”.[5] L’utilizzo della voce di un dissidente di rilievo nella politica europea rimarcava la contraddizione tra fuga per la libertà e vita nei campi.
Spiccano inoltre altre caratteristiche ricorrenti. Il pezzo, ad esempio, insisteva sul mistero relativo alle vie d’arrivo dei migranti: se nei decenni successivi l’interesse si rivolse in particolare ai trafficanti, l’interesse per la narrazione dell’attività criminogena emergeva già nel 1972, nella copertura giornalistica dell’inchiesta sulla “Tratta dei negri” che portò alle dimissioni del direttore del campo di Farfa e ancora prima, a livello locale, per l’attraversamento della frontiera triestina da parte di lavoratori jugoslavi.[6] Emerge poi, qui e altrove, una preferenza per il racconto di storie personali commoventi, oppure con protagonisti istruiti. “I rifugiati di Pedriciano […]”, scriveva «La Stampa» nel 1974, “In genere provengono dalla Mitteleuropa socialista (Ungheria e Cecoslovacchia), spesso sono laureati o diplomati” sperano “di trovare nel mondo occidentale […] un posto conforme alle ambizioni e al gusto dell’indipendenza maturato nel loro gruppo sociale e culturale”.[7] Già durante i tardi anni Sessanta, d’altronde, tanto «La Stampa» quanto il «Corriere della Sera» riportavano con grande attenzione le storie di famiglie e individui provenienti da oltrecortina e delle loro richieste di protezione, non mancando spesso di riportarne nomi e professioni: Chimico romeno chiede asilo politico (18 gennaio 1967), Ingegnere ungherese chiede asilo politico (7 marzo 1967), Tre ballerine ungheresi chiedono asilo politico (24 aprile 1967), Prorogato il soggiorno a Genova del professore profugo ungherese, («La Stampa», 31 dicembre 1961). C’era spazio, nel 1969, anche per la commovente storia di una “famigliola” proveniente dalla Cecoslovacchia il cui figlio veniva investito proprio dopo aver fatto richiesta di asilo.[8] «Il Messaggero» insisteva invece soprattutto sul flusso di coloro che, giunti in Italia da turisti, optavano per chiedere asilo appena arrivati: Dieci «tifosi» jugoslavi chiedono asilo politico (31 marzo 1955), Quattro turisti cecoslovacchi fuggono da una nave russa (27 ottobre 1964), A Milano 26 ceki chiedono asilo politico (5 gennaio 1970); di tutti si diceva, con linguaggio tipico della Guerra fredda, che avevano “scelto la libertà”.
2. Profughi dal Cile
Meno individualizzati, quasi mai descritti attraverso nomi e cognomi o con vezzeggiativi amichevoli, appaiono invece i rifugiati provenienti dal Cile per cui, tuttavia, una parte della stampa si spese con determinazione. Sempre sul «Corriere», in un articolo di prima pagina del dicembre 1963, Alfonso Madeo ricordava il caso dei dissidenti latinoamericani ancora rifugiati nell’ambasciata italiana in Cile e il colloquio avuto con Giulio Andreotti, insieme ad inviati di altre testate, per sollecitare la concessione dell’asilo e il trasferimento in Italia, nonostante gli ostacoli legali. Lo chiamava a ciò l’“impegno civile di contribuire alla sensibilizzazione del potere politico e dell’opinione pubblica sull’urgenza di interventi per la salvezza di quanti si sono affidati alla protezione, alla lealtà dell’Italia”.[9] Anche in questo articolo era ben in mostra la critica al sistema dei centri, dove rischiavano di finire i cileni già accolti a Roma, ma era nuovamente operante la volontà di delineare gli stranieri attraverso le loro professioni: “studenti, medici, professori”.[10]
Il riconoscimento del titolo di rifugiato alle persone in fuga dal Cile fu una delle prime deroghe praticate alla clausola di riserva geografica della Convenzione di Ginevra che, come abbiamo visto, prevedeva lo status di rifugiato politico per i soli esuli europei. Si trattò di una decisione politica, legata alla pressione dell’opinione pubblica, che portò nel paese prima di tutto i cileni che, dopo il golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, si erano rifugiati nell’ambasciata italiana di Santiago.[11] Contava in questa prima deroga tanto l’ormai evidente arretratezza della clausola, quanto il mutato contesto politico, caratterizzato a livello interno dall’attivismo della sinistra, dei sindacati, di parte del mondo cattolico e, come visto, del giornalismo, a favore di un paese e un governo considerati molto vicini. Tra metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo le vicende politiche del Cile assunsero infatti tanto per la DC quanto per il PCI e il PSI un particolare rilievo identitario e si creò “l’insolito fenomeno di vicinanza politica tra Italia e Cile” che avrebbe fatto del paese un nucleo fondamentale tanto per l’accoglienza degli esuli, quanto per l’azione di opposizione al regime anche grazie al supporto di movimenti come l’Associazione “Italia-Cile” (PCI e PSI) e “Chile democrático”, comitato degli esuli.[12]
Nella copertura giornalistica della questione degli esuli dal Cile, dunque, ben emerge il ruolo centrale della politica non solo nel governo legale dei flussi, ma anche nella costruzione, attraverso reti associazionistiche, partiti, sindacati, chiese e volontariato, dei significati della mobilità umana e delle traiettorie di vita, tra permanenza e nuovi spostamenti. La politicizzazione dell’asilo si riflette a sua volta nei resoconti giornalistici di testate, come «la Repubblica», in quei primi anni più schierata e interessata al commento dell’attualità. Nel marzo del 1976, a pochi mesi dalla nascita del quotidiano, Mauro Bene, poi anche caporedattore della sezione politica, definiva l’Amministrazione attività assistenziali, agenzia ministeriale che finanziava i rifugiati politici uno dei “carrozzoni clientelari legati alla pratica del sottogoverno”. L’ente era infatti accusato di voler inviare alcuni cileni nel “lager” del centro di raccolta di Latina e attuare palesi discriminazioni tra le persone accolte: le autorità avevano inizialmente “scambiato il colore dei profughi ritenendoli esuli cubani” e d’altronde l’Aii era creato “per servirsi dei profughi dell’Europa orientale […] come strumento di propaganda anticomunista”.[13]
Gli stessi esuli cileni erano però ben coscienti delle difficoltà e dei privilegi connessi alla loro condizione, oltre che dei delicati equilibri politici mobilitati dall’asilo politico. Nel 1975 «La Stampa» dava voce, come era stato per i dissidenti dall’Europa orientale, all’attività politica dei cileni in esilio, ma anche all’autoriflessione dei protagonisti, raccogliendo la voce di “Boris, socialista, tipografo”.
«Sappiamo benissimo di essere dei privilegiati, rispetto agli altri esuli che sono fuggiti dalle dittature fasciste dei loro Paesi e si sono rifugiati in Italia. È difficile anche per noi trovare lavoro, ma a noi è stata risparmiata la terribile esperienza dei campi-profughi, la clandestinità, i ricatti […]. […] Sia l’ambasciata sia il governo italiani sono sempre stati sensibili ai nostri problemi. Le forze antifasciste sono concretamente solidali con noi»[14]. Il riferimento ai più sfortunati riguardava i rifugiati non europei che, ha ricordato Christopher Hein “dalla metà degli anni settanta iniziarono ad arrivare sempre più” e che “non potendo chiedere asilo allo Stato italiano” ricercavano un mandato di protezione direttamente dall’UNHCR. A partire da quegli anni, tuttavia, furono concesse alcune altre deroghe per determinati rifugiati non europei: oltre ai casi successivi di afghani (1982), caldei iracheni (1988) e curdi iracheni (1988) fu notevole, numericamente e politicamente, il caso nel 1979 dei boat people vietnamiti.[15]
3. Profughi dal Vietnam
Nell’estate di quell’anno il governo italiano decise infatti di intervenire nel sud-est asiatico con una operazione di salvataggio in mare delle persone in fuga dal Vietnam su imbarcazioni di fortuna, spesso respinte nei tentativi di arrivare in Malaysia, Thailandia e Filippine. Si trattava sia di rifugiati vietnamiti, tra cui molti appartenenti alla minoranza di origine cinese, in fuga dal regime comunista vincitore del conflitto e dall’invasione cinese nel nord della regione, sia di individui e famiglie provenienti da Laos e Cambogia, scosse da conflitti e violazioni dei diritti umani. L’invio di tre navi della marina in un lungo viaggio per portare soccorso nel Mar Cinese Meridionale rispondeva dunque tanto ad un rinnovato contesto di intervento umanitario internazionale quanto, ancora, alle dinamiche ideologiche della Guerra fredda e alla mobilitazione sia dell’opinione pubblica che del settore del volontariato.[16]
L’operazione della marina diventava, così, in un colorito articolo de «La Stampa», l’occasione per presentare un nuovo protagonismo umanitario dell’Italia: si magnificava la presenza a bordo di “un’assistenza medica che si spinge fino alla presenza di pediatri, dentisti, neurologi” ma anche la modernizzazione di certe glorie nazionali. L’articolo si concludeva infatti rimandando all’atmosfera esotica dei racconti avventurosi, attraverso le parole del personale di bordo: “«Sandokan è una gloria nostra, ma è anche roba d’altri tempi».[17] Due giorni primi il «Corriere» evocava invece le “Caravelle italiane nel mare dei profughi”.[18] Attraverso la narrazione dei quotidiani sui corpi e sull’accoglienza dei profughi, dunque, si arricchiva la costruzione identitaria dello stato e delle associazioni. Anche l’«Avanti!» menzionava in quell’estate le Giornate serene per i profughi vietnamiti ospitati in Italia; nel testo dell’articolo una citazione di un responsabile commentava: “li abbiamo portati ad Asolo, che è uno dei posti più belli d'Italia, forse li stiamo proprio viziando”.[19] D’altronde su molte testate, già nei mesi precedenti, gli inviti all’accoglienza erano stati declinati in senso nazionale. “Presto, l’Italia faccia la sua parte” titolava l’«Avanti!» riportando una lettera di Pertini, all’epoca Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio Andreotti, mentre sul «Corriere» il sociologo Francesco Alberoni rivolgeva un simile appello.[20] Un mese dopo lo stesso Alberoni invitava inoltre a continuare la mobilitazione per la facilitazione dell’asilo, ribadendo che i primi arrivi dal Vietnam erano accolti grazie ad uno sforzo dell’intero corpo della nazione: “Quel poco che abbiamo cominciato a fare è stato voluto da tutti gli italiani, senza alcuna distinzione ideologica o di partito, di sindacato o di classe”.[21]
La natura nazionale dell’accoglienza veniva riproposta ancora mesi dopo dal quotidiano milanese usando pensieri e parole dei rifugiati: festeggiando il Capodanno essi non dimenticavano “un ringraziamento commosso al popolo che ha dato loro asilo” e nei giochi dei bambini si dimostrava che “il salvataggio operato in Estremo Oriente dalla nostra Marina non sarà dimenticato”.[22] In questi trattamenti giornalistici, che danno conto dell’attivazione di una solidarietà civile trasversale, lo straniero finiva dunque spesso infantilizzato, costruito come figura fragile, marginale, spesso passiva e ancorata ad un vissuto di migrazione non cancellabile dall’inclusione. In una breve cronaca da Treviso, molto simile a quella coeva del «Avanti!», «Il Messaggero» spiegava che una volta data sistemazione e organizzazione ai rifugiati “si comincerà a responsabilizzare gli ospiti” anche attraverso una “piccola somma” per “le sigarette e qualche altra piccola spesa” e poi “saranno condotti nei grandi magazzini […] dove potranno vestirsi a loro piacimento” e l’accostamento all’infanzia culminava nella conclusione. “Per tutti sono intanto in preparazione corsi intensivi per apprendere l’italiano e i nostri usi e costumi, compreso l’uso di posate e lenzuola”.[23] L’estraneità del rifugiato, bambino accolto ma da riformare, era ribadita dall’occhiello scelto, che leggeva: “Diventeranno «italiani»?”. A confermare l’impossibilità di una completa inclusione era non solo la forma interrogativa, ma soprattutto l’utilizzo delle virgolette, che sottintendeva per i rifugiati una italianità sempre derivata, di secondo livello, anche per coloro che avessero vissuto e lavorato a lungo nel territorio, senza per altro magari nessun interesse nell’ottenimento della cittadinanza, ma solo alla protezione internazionale.
Per i rifugiati, infatti, l’inserimento nel tessuto del paese passò anche, secondo le ricostruzioni giornalistiche, attraverso il lavoro, ma non senza difficoltà. In un articolo dal tono diverso rispetto a quelli appena citati, «la Repubblica» riportava: “Ad accresce le difficoltà ci sono poi i problemi relativi all’inserimento dei profughi nella società. I comuni di Chioggia e di Jesolo hanno già detto a chiare lettere di non avere offerte di lavoro per i profughi[…]”, ma in fondo già «La Stampa» aveva riportato il disappunto di alcuni cittadini per le presunte preferenze, in ambito lavorativo, tra vietnamiti e italiani.[24] La questione lavorativa suscitava, sul finire del decennio, maggiore discussione rispetto al 1973 poiché era nel frattempo divenuto visibile e discusso il tema dell’afflusso in Italia di lavoratori dall’estero. Era iniziata, definitivamente, la fase dell’immigrazione economica, che occuperà la seconda parte di questa discussione, ma che fu preceduta e in qualche modo preparata dalle traiettorie degli studenti esteri in Italia.
4. Studenti provenienti dall’estero
In un pezzo curato dal docente di statistica Antonio Corte, all’interno di uno speciale sull’immigrazione, l’«Avanti!» faceva il punto sul numero degli studenti esteri.[25] “Dal 1960 al 1978”, si scriveva, “il numero degli studenti in Italia è passato da 3.500 unità a 28.000: solo nell’anno accademico 1978 si nota un incremento di ben 10.000 unità”, ma la legislazione rimaneva inadeguata e garantista rispetto ai numeri e alla varietà degli arrivi: dalla Grecia, soprattutto, ma anche dall’Iran e “dal terzo mondo”.
Nel fenomeno contavano tanto dinamiche tecnico-economiche (come l’assenza del numero chiuso in Italia) quanto soprattutto politiche, come ben registrato da Liliana Madeo su «La Stampa» nel fatidico ’77. Tanti e tante dalla Grecia fuggivano, si diceva, dal regime dei Colonelli, ma a Roma “Il nucleo più consistente […] è costituito da iraniani, sudamericani, palestinesi, turchi, eritrei, armeni […] la fetta più attiva politicamente, un settore in continuo fermento, che tiene contatto con le organizzazioni democratiche clandestine nei Paesi d'origine […]”.[26] La politicizzazione di questi studenti, rifugiati e non solo, era dipinta con tinte insieme preoccupate e canzonatorie sullo stesso quotidiano da un commento di Luigi Firpo. Quella degli studenti stranieri era una “legione” venuta a “estenuare i vantaggi delle loro monete forti” oppure “a gridare le loro rabbie cosmopolite […] sui muri” e per capirla serviva “diradare le cortine fumogene, accantonare gli scioperi della fame, sperare che i sindacati sì muovano con cautela prima di solidarizzare a scatola chiusa”.[27] Un linguaggio che, per criticare sistema universitario e la proposta di sospendere per due anni le nuove iscrizioni estere, finiva col rappresentare una sorta di invasione dall’esterno che invece di arricchire il paese poteva al massimo, una volta lasciata l’Italia, fare da ambasciatrice. Tornava l’immaginazione dell’Italia come paese unicamente di transito, in fondo disinteressato ad accogliere in maniera definitiva una categoria che d’altronde nella normativa “non contempla la figura giuridica dello studente straniero” e quindi l’amministrava tramite circolari e disposizioni di polizia.[28]
Spesso le difficoltà erano al centro della costruzione giornalistica sullo studente internazionale, dipinto come fragile e utilizzato anche però per criticare alcune storture nazionali da un punto di vista esterno. A tal proposito è esemplare un articolo de «Il Messaggero» del 1966 che parlando degli studenti esteri a Roma ne notava la precaria situazione economica (“i borsisti del governo italiano sono quelli che stanno peggio”), l’abnegazione, ma anche l’isolamento: “La maggioranza degli studenti stranieri proviene da paesi sottosviluppati, africani e asiatici. Sono ragazzi chiusi, riservati, taciturni”. Se ne raccoglievano anche alcune testimonianze, soprattutto femminili (“un’inglesina troppo bionda” e “una bellissima austriaca”) ma anche queste servivano per dare voce a lamentele sull’Italia senza però mettere estendere una critica profonda. “Se non si riesce a realizzare una maggiore fraternizzazione” concludeva il pezzo, “la colpa è un po’ di tutti, certamente non è dovuta a pregiudizi di sorta”.[29]
Per lo studente internazionale il quotidiano prescriveva insomma il ruolo di elemento straniero rassicurante, transitorio, debole, ma non perturbante per l’assetto politico e sociale nazionale, in particolare quando non legato a movimenti politici. Solo in questi casi, infatti, se ne sottolineava il potenziale ruolo inquietante: dopo l’attentato a Trieste attribuito a Settembre Nero del agosto 1972 il quotidiano romano metteva in guardia rispetto a “l’Università per stranieri di Perugia, alla quale - come già detto - sono iscritti circa duemila arabi” e che “servirebbe a sviare qualsiasi sospetto su riunioni e incontri più o meno segreti”.[30]
[1] Giulia Angeletti, Il Campo Profughi Stranieri «Rossi Longhi» di Latina (1957-1989), «Studi Emigrazione», 187 2012, pp. 431-446. Sulla crisi dei rifugiati ungheresi in prospettiva globale: Peter Gatrell, Free World? The Campaign to Save the World’s Refugees 1956-1963, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, pp. 49-57. Sulle fughe politiche della Guerra fredda anche: Philipp Ther, Ai margini della società. Fuga, rifugiati e integrazione nell’Europa moderna, Rovereto, Keller, 2024, pp. 274-306.
[2] Silvia Salvatici, Missing the Global Turn: Italy, the 1951 Refugee Convention, and the Belated Removal of the Geographical Limitation, «European History Quarterly», 2 2023, pp. 357-378.
[3] Arnaldo Geraldini, Passano per Trieste i profughi clandestini che hanno chiesto asilo politico all’Italia, «La Stampa», 5 settembre 1965.
[4] Lamberto Furno, L’«arcipelago» dei profughi, «La Stampa», 2 novembre 1975
[6] Livio Zanotti, A Roma una “centrale” del mercato dei negri. Un sardo li ospitava, dormivano sulla paglia, «La Stampa», 19 luglio 1972; Id., La tratta dei negri, «La Stampa», 25 luglio 1972; Paolo Menghini, Il «negriero» coinvolge l’ex-direttore del Centro raccolta profughi di Farfa, «Corriere della Sera», 26 luglio 1972; S.N., Destituito a Farfa il direttore del campo profughi, «Il Messaggero», 25 luglio 1972; Umberto Ottolenghi, I negri dicono: «non siamo assassini cerchiamo lavoro»,«Il Messaggero», 19 luglio 1972. Sono del 1968 due articoli del «Messaggero Veneto» e del «Gazzettino» dedicati all’espatrio clandestino citati da Colucci, Storia dell’immigrazione, p. 44.
[7] Stefano Reggiani, Nella Trieste dei profughi, «La Stampa», 5 ottobre 1974.
[8] S.N., Piccolo profugo all’ospedale, «Corriere della Sera», 9 aprile 1969
[9] Alfonso Madeo, Salvare i rifugiati nell’ambasciata italiana in Cile, «Corriere della Sera», 16 dicembre 1973. Anche il corrispondente de «Il Messaggero» Pino Cimò partecipò all’incontro con l’onorevole: Pino Cimò, La Farnesina non interviene per salvare i rifugiati nella nostra ambasciata in Cile, «Il Messaggero», 17 dicembre 1973.
[10] Madeo, Salvare i rifugiati.
[11] Sulla vicenda del rifugio in ambasciata: Erminio Fonzo, Chilean Refugees in Italy: a Forgotten Story, in Erminio Fonzo e Hilary A. Haakenson (a cura di), Mediterranean Mosaic: History and Art, MK, Fisciano, 2019, pp. 187-211.
[12] Alessandro Santoni, Il PCI e i giorni del Cile. Alle origini di un mito politico, Roma, Carocci, 2008, pp. 193-201 e p. 58 per la citazione.
[13] Mauro Bene, Profughi cileni rischiano di finire nel lager, «la Repubblica», 14 marzo 1976
[14] Liliana Madeo, La vita dei profughi cileni che ricevono asilo in Italia, «La Stampa», 9 febbraio 1975.
[15] Christopher Hein (a cura di), Rifugiati. Vent'anni di storia del diritto d'asilo in Italia, Roma, Carocci, 2010, p. 36.
[16] Salvatici, Missing the Global Turn, p. 371-374; Mara Dinunno, L’accoglienza dei boat people vietnamiti in Italia, «Studi Emigrazione», 164 2006, pp. 875-886; Per una panoramica internazionale e sul tema dei ricollocamenti: Becky Taylor et. all. (a cura di), When Boat People Were Resettled, 1975-1983, Cham, Palgrave Macmillan, 2021.
[17] Mimmo Candito, A Singapore con le navi italiane che da domani cercano i profughi, «La Stampa», 24 luglio 1979.
[18] Giuliano Zincone, Con tre caravelle italiane nel mare dei profughi, «Corriere della Sera», 22 luglio 1979.
[19] S.N., Giornate serene per i profughi vietnamiti ospitati in Italia, «Avanti!», 23 agosto 1979.
[20] Piero V Scorti, “Presto, l’Italia faccia la sua parte”, «Avanti!», 22 giugno 1979; Francesco Alberoni, L'Italia ospiti 50 mila vietnamiti che stanno morendo, «Corriere della Sera», 18 giugno 1979. «la Repubblica», con Tiziano Terzani come corrispondente dalla zona diede contò degli appelli ma anche delle polemiche suscitate. Vd. S.N., “L’Italia accolga 50 mila esuli”, «la Repubblica», 19 giugno 1979.
[21] Francesco Alberoni, A Roma i primi profughi dal Vietnam, «Corriere della Sera», 14 luglio 1979.
[22] Renato Ferraro, A Jesolo i profughi vietnamiti festeggiano il Capodanno lunare, «Corriere della Sera», 7 ottobre 1979
[23] S.N., I profughi Viet stanno già ambientandosi, «Il Messaggero», 23 agosto 1979.
[24] Roberto Bianchin, Nessuno sa dove metteremo i “boat people”, «la Repubblica», 6 agosto 1979; S.N., Vietnam: rimorsi o buon cuore?, «La Stampa», 1 luglio 1979.
[25] Antonio Cortese, La questione degli studenti esteri, «Avanti», 20 giugno 1981
[26] Liliana Madeo, Studenti profughi, «La Stampa», 1 luglio 1977.
[27] Luigi Firpo, Studenti stranieri scacciati, «La Stampa», 17 luglio 1977. Politicizzazione, solidarietà e network degli studenti sono indagati in Simona Berhe, Studenti internazionali nell’Italia repubblicana. Storia di un’avanguardia, Milano, Mimesis, 2023.
[28] Paolo Caputo, Il ghetto diffuso. L’immigrazione straniera a Milano, Milano, FrancoAngeli, 1983.
[29] R.D., Per gli studenti stranieri non è facile vivere a Roma, in «Il Messaggero», 29 marzo 1966.
[30] Luigi Palazzoni, Duemila studenti arabi all’Università di Perugia, «Il Messaggero», 8 agosto 1972.