Introduzione

Dettagli

Autore
Data
11/3/2025
Tipologia
Testata
Pagina
Periodo
Area Tematica

Articolo:

Introduzione

1. Una nazione di “stranieri”?

Contrariamente a quanto suggerito dall’esperienza quotidiana, la mobilità di persone e gruppi non è un fenomeno esclusivo degli ultimi decenni: le migrazioni sono sempre esistite, e caratterizzano tanto l’antichità quanto l’età medievale e moderna. Le scienze umane hanno perciò ormai decostruito la concezione di “popolo” come entità omogenea e statica legata ad un dato territorio e a una cultura. Queste riflessioni si sono legate a doppio filo alla riconsiderazione di alcuni altri concetti fondanti della storiografia. Le tradizioni sono ora indagate in quanto “invenzioni”, non come semplici archivi di simboli e pratiche a cui attingere dal passato, mentre i confini sono considerati soglie porose, frutto non di un dato naturale, ma di costruzioni che sono contemporaneamente culturali, politiche, amministrative, cartografiche e fisiche.Questo ripensamento teorico ha perciò riguardato anche l’idea di nazione e i processi cosiddetti di nation-building, inquadrati come stratificazioni di immaginazioni sulle persone e sulle comunità e quindi riguardanti anche la descrizione e la caratterizzazione dell’altro, del migrante, dello straniero. “Tutte le società”, ha scritto in un celebre articolo Zygmunt Bauman, “producono stranieri” e ciò avviene e avveniva sia tramite gli strumenti predisposti dall’apparato burocratico (leggi, documenti identificativi, dispositivi polizieschi) sia attraverso l’azione di periodici e quotidiani.[1] Insieme ai romanzi infatti, i giornali, ha argomentato Benedict Anderson, offrirono gli strumenti tecnici per «rappresentare» quel tipo di comunità immaginata che è la nazione” e quindi giocarono e giocano tutt’ora un ruolo centrale nella costruzione di “rappresentazioni sociali dell’alterità”, come ricordato da Binotto, Bruno e Lai, poiché essi si trovano spesso a svolgere una “funzione ideologica di controllo sociale”.[2]In questo senso, come ricorda il Routledge Handbook of Mobilities, la produzione di immaginari sulle persone migranti agisce come fonte di norme, regole e convenzioni riguardanti anche chi migrante non è.[3] Per tale ragione, ma non solo, non è semplice chiarire in maniera univoca i contorni dei fenomeni migratori e di chi li anima. Esistono infatti numerose categorie di persone migranti: rifugiati, richiedenti asilo, espatriati per le più varie cause, migranti economici (di qualunque livello professionale), migranti giunti in un paese per ragioni di studio, oppure affettive o familiari, migranti vittime di traffico e sprovvisti di documento e molti altri ancora, tutti con mete e percorsi diversi e non sempre residenti indefinitamente in un unico paese, che può essere anzi solo luogo di transito più o meno rapido.[4]Per queste varie ragioni ci occuperemo qui del contesto italiano a partire dal secondo dopoguerra pensando alla categoria di “immigrazione” in senso ampio, accennando anche a casi limite che caratterizzano i primi decenni repubblicani, come quello dei “national refugees” studiati di recente da Pamela Ballinger.

2. Un caso limite: i rimpatriati italiani

La storica ha dedicato la sua produzione recente alle internally displaced persons, persone di origine italiana che a seguito del processo di smantellamento del colonialismo italiano, tra il 1947 e il 1960, ritornarono in Italia dai territori prima controllati in Africa, Albania e Grecia, dove si erano recati come coloni o come migranti. Il caso dei cosiddetti “rimpatriati”, solo apparentemente eccezionale, permette di riflettere su diversi temi; dai confini culturali e giuridici dell’identità nazionale, all’influenza della sistemazione giuridica del tema dei rifugiati, fino alla questione, per noi centrale, della presenza giornalistica dei migranti. Anche se fino a pochi anni fa dimenticati, i rimpatriati italiani furono infatti ben presenti nelle cronache giornalistiche. 
Ma citare il caso ci consente di soffermarci su alcuni altri nodi centrali. Prima di tutto la necessità di considerare migranti, rifugiati, profughi, richiedenti asilo e rimpatriati come attori storici con precise motivazioni, ma anche come figure individuate e descritte attraverso specifiche politiche di protezione e regolamentazione. Ha scritto la storica Silvia Salvatici che programmi di assistenza, politiche, accordi tra associazioni, stati e organi internazionali “determinarono l’emergere di profughi e profughe come soggetti specifici dell’umanitarismo internazionale”.[5] L’“international regime of protection, relief, and regulation” di cui parla Ballinger nacque infatti già con la Prima guerra mondiale e le sue tragedie, ma si consolidò dopo il secondo conflitto, inaugurando una dottrina del riconoscimento legale orientata su base individuale, interessata soprattutto alle traiettorie di spostamento dei singoli.[6] Questi principi troveranno compiuta organizzazione prima nell’IRO (International Refugee Organization, 1946-1951) e poi nel UNHCR e nella Convenzione di Ginevra del 1951 che “codifica il concetto di rifugiato internazionale” e informava le politiche di asilo di ogni stato aderente all’Onu.[7] Venivano così introdotte restrizioni temporali e geografiche precise per concedere il riconoscimento legale della protezione, ponendo l’accento sulle mobilità legate a fattori persecutorii e politici e ad eventi avvenuti prima del 1 gennaio 1951. Tali condizioni limitanti, come vedremo, insieme all’inserimento di una “clausola di riserva geografica” che offriva agli stati la possibilità di limitare le richieste a chi proveniva dal continente europeo, avranno grande importanza per il caso italiano.

3. Un’esperienza: il campo

Tra le continuità che caratterizzano l’esperienza di rimpatriati, profughi e migranti è di particolare rilevanza, per la sua costante presenza nei discorsi della stampa, quella relativa all’esperienza della permanenza in “campi” o centri per l’accoglienza e il controllo dei rifugiati. Una volta conclusasi la guerra, infatti, furono creati numerosi di questi “strumenti coattivi”, specialmente in Germania, Austria e Italia, non per fini bellici o genocidi, ma come luoghi dove alloggiare, assistere, avviare al lavoro e controllare i numerosissimi profughi europei.[8] Si trattava di luoghi, dunque, in cui le finalità di assistenza si sommavano a quelle di governo delle Displaced Persons, categoria amministrativa ideata per indicare “i civili che si trovavano fuori dai confini della propria patria per motivi legati alla guerra” e che comprendeva principalmente “ex deportati ai lavori forzati, provenienti in più larga misura dallEuropa centro-orientale e balcanica […], ex deportati per motivi politici o razziali […]” e “[…] civili che erano fuggiti verso ovest con l’avanzare dell’Armata rossa”.[9]

Gestiti e controllati, nell’immediato dopoguerra, sia dalle forze militari alleate che da UNRAA e IRO, questi centri di accoglienza furono organizzati secondo linee di demarcazione che cercavano di rispecchiare le provenienze nazionali, per facilitare l’obiettivo primario dei responsabili, ovvero il rimpatrio di individui e famiglie o, in alternativa, l’inserimento lavorativo in paesi d’accoglienza. Spazi di tutela ma spesso anche di segregazione, i centri di accoglienza del dopoguerra furono animati tanto dalla attività degli alleati quanto dall’autorganizzazione dei residenti, non soltanto “luoghi di contenimento” ma anche “ambienti sociali compositi”, il cui funzionamento però finì per consolidare “l’abitudine ad associare la condizione di fuga con la residenza obbligata nei centri collettivi, forgiando così uno dei caratteri costitutivi della percezione dei rifugiati nelle società contemporanee”.[10]

Se questa descrizione vale specialmente per la Germania, in Italia la situazione ebbe alcune caratteristiche specifiche. Si crearono, ha scritto Matteo Sanfilippo, due binari paralleli nell’organizzazione dei campi: “uno, gestito da Alleati-Esercito britannico-Unrra-Iro per i rifugiati legali; l’altro, italiano, per quelli illegali e/o pericolosi” e in merito a chi abitò i campi, oltre alla presenza di prigionieri di guerra nazifascisti, di ex-combattenti nell’Europa orientale, di ebrei, va registrata certamente l’importanza della popolazione legata alla diaspora giuliano-dalmata.[11] Di questi centri per “stranieri pericolosi” alcuni,  rinominati “Centri di raccolta profughi stranieri”, continuarono a venir utilizzati per profughi senza documenti o colpevoli di reati o espulsi da altri campi a gestione internazionale.[12] La permanenza di alcune di queste strutture nel successivo governo dei fenomeni di arrivo di persone dall’estero ci spinge dunque a riflettere ulteriormente sui confini labili tra l’esperienza dei profughi e quella delle “migrazioni ordinarie”, che in questo profilo sono infatti trattate come parte delle della medesima storia, raccogliendo gli stimoli fissati su «Meridiana» ormai diversi anni fa da Stefano Gallo.[13]