PAVIA — La legge risale al 1967. Ma per molti aspetti, troppi, è rimasta solo sulla carta: nel mondo del lavoro, la donna è ancora un cittadino discriminato, quasi di serie B. Parte da questo presupposto il convegno su -Il lavoro delle donne c la legge di parità», organizzato per domani e dopodomani a Pavia dall'amministrazione comunale, dalla Consulta femminile e dall’università degli studi. Il programma dei lavori, che saranno articolati lungo una fitta serie di interventi, dibattiti c tavole rotonde. prevede la partecipazione di giuristi, magistrati, esponenti politici e sindacalisti. Interverranno in particolare parlamentari di sesso femminile (quali le indipendenti di sinistra Vera Squarcialupi e Carla Ravaioli, la socialista Maria Magnani Noya e la democristiana Sandra Codazzi), che
porteranno la loro personale testimonianza sulle difficoltà che incontrano come donne nel realizzare una politica per le donne. Tema del convegno, appunto, un bilancio e un esame delle prospettive della legge di parità; oltre a una valutazione degli aspetti socio-economici dell'occupazione femminile, in riferimento al mercato del lavoro e al ruolo del sindacato.
<<Noi non abbiamo voluto, con questa iniziativa, privilegiare il lavoro delle donne (quale aspetto della condizione femminile) rispetto per esempio ai temi della famiglia o della sessualità, ritenendolo cioè prioritario ai fini dell’emancipazione», sostengono gli organizzatori del convegno. «Abbiamo invece privilegiato questo aspetto perché il lavoro extra-domestico è il primo momento in cui le donne hanno un rapporto esterno rispetto al "privato”, e soprattutto per valutare globalmente il concetto di lavoro femminile, nella cui definizione rientra anche il lavoro domestico. E’ proprio quest’ultimo concetto, anzi, che spiega limiti e conflitti della legge di parità fra uomini e donne».
A dimostrare che la parità è solo teorica, un provvedimento legislativo poco e male recepito nella pratica, bastano alcuni dati. Come quelli della tabella che pubblichiamo, dalla quale risulta evidente la disparità nella distribuzione degli occupali in base al sesso nei settori dell’Industria, del Terziario, c dei Servizi (indicati nella tabella come Altre Attività, che non comprendono però la pubblica amministrazione). Risulta da questi dati che I occupazione femminile è sì aumentata fra il 1951 e il 1971, complessivamente del 53 per cento (cioè di oltre un milione di donne); ma che è aumentata assai meno dell’occupazione maschile (60 per cento. cioè oltre tre milioni in più).
Più che i dati complessivi, merita però qualche parola l’andamento della professionalità femminile in questi decenni. «Mentre per gli operai si registra sull'intero periodo un forte aumento della professionalità riconosciuta», si apprende da un’indagine sulle classi sociali pubblicata dalla rivista della Camera del Lavoro di Milano, «per le operaie è l’inverso: le operaie qualificate passano infatti dal 60,4 per cento del 1951 al 45,6 per cento del '71, mentre quelle
senza qualifica aumentano dal 39,6 per cento al 54,4 per cento. E’ come se la conquista, durante gli anni ’60, della parità salariale fosse stata vanificata in termini di perdita di professionalità».
Analoga la situazione nel settore impiegatizio: «Anche qui. e molto più che tra gli operai», si apprende ancora dai risultati dell'indagine, «la parte riservata alle donne quanto a professionalità è quasi esclusivamente quella dell’impiego esecutivo, non di Quello ai "concettò’. Anzi, nell'ambito dell'impiego esecutivo, è assai alta la quota delle mansioni meno riconosciute professionalmente e meno retribuite (dattilografe, centraliniste, eccetera) quasi esclusivamente riservate alle donne». Il paragone con i Paesi industrializzati stranieri è mortificante: «Il tasso specifico di attività della popolazione femminile in Italia resta il più basso tra quelli dei Paesi Cee. quasi uguale a quello greco e dei Paesi dell'America Latina, molto distante da quello inglese, tedesco e degli Lisa. Quindi la "condizione femminile” rispetto all’occupazione resta connotata da una esclusione e da una emarginazione dal processo produttivo che discrimina ancora notevolmente il pieno utilizzo della forza lavoro femminile».