Lavoro femminile ad orario ridotto?

Commento sulla possibilità di introdurre l'orario ridotto per il lavoro femminile

Dettagli

Autore
Gino Giugni
Data
21/12/1976
Tipologia
Commento
Testata
La Stampa
Pagina
9
Periodo
Anni Settanta
Area Tematica
Donne

Articolo:

Il problema della donna lavoratrice è ormai di scottante attualità. Alle agguerrite pressioni dei movimenti femminili ha cercato di dare risposta un testo governativo che, come era da aspettarsi, non ha avuto buona accoglienza. Fatto è che tuttora appare difficile intendersi su talune premesse essenziali, perché si è ben lungi dall'aver acquisito un largo consenso (nell'uno come nell'altro sesso) intorno alla funzione della donna nel mercato del lavoro. In questa sede, prendiamo in esame solo uno dei vari problemi; è quello intorno al quale la polemica tende a farsi aspra e a polemizzarsi in termini irriducibili: mi riferisco all'argomento del tempo parziale. Questo concerne, come è noto, la promozione di forme di occupazione a orario ridotto, e a corrispondente guadagno ridotto, ed è prospettato giustamente con riferimento a tutti, uomini e soprattutto giovani, anche se è evidente che la proposta è pensata prevalentemente con riferimento all'occupazione femminile. Proviamo ora ad usare, come unità di misura, quanto afferma la nostra Costituzione in materia di lavoro della donna: « La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguala protezione » (art. 37). Ebbene, solo che si sposti l'accento sulla funzione familiare, ovvero sul principio di eguaglianza, nell'interpretazione della norma, viene a mutare la risposta al nostro problema. L'alternativa, infatti, una volta posta in modo schematico (anche se, come si vedrà alla fine, lo schema, come è proprio per tutti gli schemi nelle scienze sociali, aiuta a capire il problema, ma non a trovare la giusta soluzione) è questa: se la proiezione della donna è nel destino familiare, il lavoro è un complemento di questo, e pertanto il tempo parziale (come il pensionamento anticipato di cinque anni, che mi pare ispirato dalla stessa ragione, perché non penso che le donne invecchino prima degli uomini) è il giusto modo per impegnare la donna in un lavoro che sarà necessariamente secondario rispetto a quello dell'uomo capofamiglia. Questa soluzione di principio, guarda caso, viene a pesare soprattutto sui ceti operai (marito in fabbrica, la donna in fabbrica anch'essa, ovvero occupata come commessa). Per i ceti medi o piccolo-borghesi c'è in realtà un tempo parziale a guadagno integrale, e sono le attività di insegnamento, o l'impiego negli uffici a orario unico. 11 reddito è aggiuntivo a quello del capofamiglia ma, ove occorre, può anche essere sufficiente ad un modesto tenore di vita, e ciò soprattutto nel settore pubblico, che è quello in cui la parità tra i due sessi è allo stadio più avanzato. Torniamo all'alternativa precedente. Solo che si ponga l'accento sull'altro aspetto della Costituzione, quello dell'eguaglianza, la valutazione può essere completamente diversa. Ammettere o agevolare un lavoro a tempo (e guadagno) ridotto implica sanzionare una diseguaglianza, da cui deriva a sua volta una destinazione prevalente a occupazioni di minor responsabilità. Il problema è oggi reso più complesso dalla condizione di realtà. In essa, il ruolo di casalinga (che, statisticamente, si accresce invece che diminuire) si colora, e in misura crescente, di lavoro a domicilio o comunque precario, non garantito dalla legislazione sociale. Molto sovente, non è affatto vero che a tale ruolo corrisponda, e pensiamo sempre ai ceti a basso reddito, una serena dedizione al focolare domestico. E' vero invece che, in un paese che vanta leggi tra le più avanzate a tutela della donna (ma soprattutto della lavoratrice madre, ed è un retaggio della politica demografica del regime, e insieme della concezione cattolica del ruolo della donna), la funzione casalinga nasconde invece , ipocritamente, realtà di sfruttamento. D'altra parte, la scelta della versione « familiare » della definizione costituzionale della parità tra i sessi è il più delle volte frutto di necessità, perché la società non offre i necessari mezzi per l'espletamento di attività nella famiglia che non siano incompatibili con le attività esterne (servizi, asili, assistenza sociale, ecc.). Molte volte, poi, la scelta è frutto di una falsa coscienza della donna, che una millenaria tradizione e una costante pressione sociale tuttora esistente nonostante la carica dirompente del femminismo, tiene inchiodata a una visione del primato del proprio ruolo della famiglia. Considerando tutte queste ragioni, per altro, sarei propenso a invitare le femministe, anche le più convinte, a una riflessione attenta prima di opporre al tempo parziale un'opposizione intransigente e « ideologica ». Penso infatti che tale sistema, purché, ed è qui il punto, non sia inteso come una soluzione permanente, può alla fine dei conti costituire un avvio al superamento della condizione subalterna della donna; è meglio, certamente, del lavoro a domicilio o di quello casalingo, inteso come esclusivo di un solo sesso, quasi per destinazione antropologica. Penso a un tempo parziale di breve periodo, che può essere fatto corrispondere agli stadi di età in cui più forte e meno divisibile è il carico del lavoro familiare; dopo tre-cinque anni, il lavoratore a tempo parziale (che, ammettiamolo pure, sarà più spesso una lavoratrice) dovrebbe avere facoltà di optare per il tempo totale, e l'impresa avrebbe interesse a predisporre e a far predisporre in tempo da parte delle strutture pubbliche adeguati mezzi di qualificazione a compiti più impegnativi. Vedo con preoccupazione che, a onta dell'impegno dei movimenti, l'occupazione femminile precipita; credo poco alle soluzioni basate sul contingente (come quel 50 per cento di cui si è discusso recentemente, che potrebbe per altro forse essere utilmente considerato in alcuni casi, come nella legge sull'occupazione giovanile); non credo che certe vischiosità sociologiche possano essere superate d'un balzo, né che gli auspicati servizi sociali possano funzionare dall'oggi al domani. Programmare pertanto una fase intermedia, in cui operi la direttiva di agevolare l'uscita della donna da una destinazione coatta, può essere per ora una soluzione praticabile. E comunque, visto in questi termini, il problema del tempo parziale potrà forse essere soppesato diversamente da quanto non permetta la contrapposizione, rispetto a esso, di due concezioni del la funzione della donna che con tutta la buona volontà compromissoria della Costituzione, appaiono in realtà incomponibili.